domenica 9 novembre 2014

Joshua ed il linfoma di Burkitt

La storia di Joshua a buon ragione fa parte di quei primi tempi in cui tutto ci sembrava epico e pionieristico.
Credo che fosse la fine del 1998 quando Fr Maurizio mi disse che mi avrebbe accompagnato a vedere un caso terribile in una capanna vicina al villaggio di Giaki.
Rammento che ero convalescente da uno di quegli attacchi malarici che nei miei primi anni d’Africa, mi stroncavano completamente: avevo assunto amodiaquina, poi fansidar e quindi chinino, ma la mia “goccia spessa” era sempre positiva per alta densità di malaria. Disperato, mi ero quindi affidato alla dose terapeutica di Lariam (5 compresse nell’arco di 24 ore): il test per il plasmodio si era in effetti negativizzato, ma gli effetti collaterali erano tremendi (capogiro fortissimo da non reggermi in piedi ed insonnia persistente). Avevo chiesto a Maurizio di guidare lui, ed anche scendendo dall’autovettura avevo rischiato più volte di cadere perchè avevo la sensazione che tutto attorno a me girasse.

La scena che ci attendeva era incredibile: la casa era poverissima, il padre non c’era (e, come ebbi in seguito occasione di comprendere meglio, non c’era quasi mai, in quanto dedito all’alcoolismo). A tirare avanti la baracca era la mamma, e l’attività principale era il commercio di banane. Vivevano in effetti in un bellissimo bananeto.



Joshua non era in casa come mi sarei aspettato, ma nella stalla con la mucca.
Gli portavano qualcosa da mangiare, ma non lo volevano toccare perchè lo pensavano vittima di qualche malocchio o spirito maligno. Proprio a motivo di tale credenza, Joshua e tutta la sua famiglia erano oggetto di ostracismo da parte dei vicini di casa.
Con Fr Maurizio siamo entrati in quella stalla ed abbiamo visto un bambino di circa 8 anni che giaceva nei propri escrementi sulla stessa paglia calpestata anche dall’unica mucca posseduta dalla famiglia.
Ero ancora nuovo a Chaaria e certe cose forse mi sconvolgevano di più di oggi.
Non potevo credere a quel che vedevo: un padre che annegava il proprio dolore nell’alcool disinteressandosi della famiglia, ed una madre troppo spaventata da credenze e tabù locali per trovare il coraggio di toccare il proprio figlioletto ammalato.
Di botto avevo chiesto a Maurizio di portare il bimbo a Chaaria, almeno per ripulirlo ed iniziare a pensare ad una possibile soluzione.
La mamma acconsentì e ci seguì al dispensario, che non distava più di 4 chilometri dalla loro abitazione.  Arrivati in missione abbiamo raccolto un po’ di storia ed abbiamo visitato Joshua con attenzione.
In cuor mio speravo in un ascesso dentario, per cui avremmo potuto fare qualcosa.
L’analisi del caso però escludeva la cosa in modo assoluto: la massa era durissima ed era cresciuta nell’arco di alcuni mesi. La madre diceva che il volume pareva incrementare giorno dopo giorno. I denti di Joshua poi erano tutti mobili e traballanti.
Ero ancora fresco di studi a Londra ed il quadro clinico mi portò subito a pensare ad una possibile diagnosi di linfoma di Burkitt, endemico in Africa sia in persone immunodepresse che in pazienti immunocompetenti.
A quei tempi non avevamo alcuna possibilità diagnostica in quel campo: avevamo a disposizione un emoglobinometro a rifrazione, ma non potevamo eseguire neppure l’emocromo (per cui non sapevamo nulla dei globuli bianchi). L’ecografo non lo avevamo ancora comprato. Neppure eravamo in grado di fare test HIV o biopsie.
Fu Maurizio a dire che lui aveva dei soldi mandati dalla sua parrocchia e che li avrebbe investiti volentieri nel caso in questione, se lo avessimo riferito al Kenyatta National Hospital.
La decisione fu unanime ed immediata.
Fu Fr Lorenzo a prendersi carico dei trasporti avanti e indietro da Nairobi: Joshua fu visitato e ricoverato; la diagnosi di linfoma di Burkitt in paziente HIV negativo fu confermata dalla struttura universitaria; subito dopo iniziarono i cicli di chemioterapia mensile.

Lorenzo accompagnava Josha e la mamma per i ricoveri al Kenyatta. Noi a Chaaria facevamo invece il controllo dell’emoglobina due settimane dopo la chemio, e trasfondevamo se ce n’era bisogno.
Come descritto ampiamente in letteratura, anche nel caso di Josha la risposta clinica alla chemioterapia fu stupefacente, e la massa scomparì completamente dopo nove cicli a Nairobi. La madre era assolutamente incredula e pensava ad un miracolo.
D’accordo con gli oncologi della capitale, fui io a fare il “follow up” di Joshua, e cinque anni dopo la fine della chemio lo abbiamo dichiarato libero da recidive.
La madre è sempre stata fedele e collaborante  per le visite di controllo, mentre il padre non è venuto a Chaaria neppure una volta e non ci ha mai detto grazie.
Pure la mamma, che grazie ce lo ha detto, non ha comunque fatto lo sforzo di portarci neppure un casco di banane come atto di riconoscenza: come sempre, la ricompensa dobbiamo aspettarcela da Dio e non dagli uomini.
Facendo i conti, i soldi che abbiamo speso per Joshua soltanto avrebbero pouto guarire almeno mille persone affette da malaria complicata. Ma quella fu la nostra scelta ed è stato importante spendere quei soldi in tal modo, visto i risultati terapeutici che abbiamo ottenuto.
Ho rivisto Joshua recentemente. Era in ospedale per altri motivi e non  sarebbe neppure venuto a salutarmi, ma qualcuno del personale più anziano lo ha riconosciuto e gli ha chiesto di passare a salutarmi. Ho quindi avuto la possibilità di visitarlo e di rendermi conto che anche ora è libero da recidive... penso dunque che sia proprio guarito.
Dopo essermi congedato da lui, ho quindi continuato a visitare altri pazienti.
Circa un’ora più tardi ho però sentito un altercare concitato nella sala d’attesa: era sparita la bicicletta di un paziente.
Io non ho avuto molti dubbi perchè avevo sentito della piega che la vita di Joshua aveva preso: ho chiesto all’autista di andare a casa del giovane e verificare se per caso avesse preso lui la bici.
Joshua era in cortile con la bici ancora tra le mani; alla richiesta del perchè l’avesse rubata, lui candidamente ha risposto: “era un prestito” e l’ha restituita a Joseph senza fare resistenza.
Certamente abbiamo salvato Joshua da un tumore maligno; non so però se siamo riuscito a salvarlo da se stesso, ora che è un uomo di oltre 20 anni.

Fr Beppe 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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