venerdì 13 marzo 2015

La nostra vita con i poveri

Sono le 13.30 ed ho appena finito di mangiare. Mi avvio immediatamente in ospedale perchè vorrei tentare di finire tutti i pazienti prima dell’ora di preghiera. Appena uscito dal refettorio vengo come affascinato da una strana atmosfera pomeridiana. 
Il sole è torrido; non c’è un filo di vento; attorno a me tutto tace in quanto i Fratelli sono in camera per qualche minuto di “siesta”, e gli operai della manutenzione sono in pausa. 
Non si sente una mosca volare: neppure il normale gracchiare dei corvi o degli ibis. 
Si percepisce il profumo di fieno, che in questi giorni sta seccando sotto il solleone. Quasi impercettibilmente vengo colto da una forte nostalgia: mi ritrovo a sognare di quando, adolescente, ero a casa nel mese di agosto; di quando andavo in campagna, e al pomeriggio ci si fermava sotto un albero a consumare il “pranzo al sacco”, prima di riprendere con la raccolta delle pesche o delle patate. 
Cammino lentamente, un po’ assente e assorto nei miei pensieri… ma appena giunto vicino
all’ospedale, tutto ritorna di colpo normale: vengo salutato da lontano da una donna psichiatrica che crede che io sia suo marito; un gruppo di parenti sta aspettando informazioni sui loro degenti, prima di andarsene; altri ancora attendono, con chiari segni di impazienza, che io scriva la lettera di dimissione. 


Il sogno è durato poco: eccomi di nuovo circondato da bambini che piangono, mentre cerchiamo di trovare loro una vena, donne che si contorcono nei dolori del travaglio, uomini paralizzati che aspettano il fisioterapista, pazienti esterni che si lamentano per la vescica troppo piena e per il mio ritardo nel fare loro l’ecografia…
Appena arrivato in “room 17” la mia attenzione viene richiamata dal muggire continuo di una mucca stanca, che proviene dalla sala di attesa. Mi affaccio dalla finestra e vedo un gruppo di persone vestite poveramente che si affanno attorno ad un carretto trainato appunto da un bovino. 
Vedo il guardiano correre con la barella e capisco che si deve trattare di un caso di maternità, perchè vedo quasi tutte donne, con l’eccezione di un emaciato signore che cerca di tener calmo l’animale, e rimane a distanza dalla malata. 
Decido di uscire a vedere, prima di tutto per poter capire dove dirigere la paziente, se in sala parto, o in ambulatorio, o direttamente in reparto. La barella mi passa vicino velocemente e mi rendo conto che è già tutta piena di sangue. 
Capisco che la situazione è una emergenza vera: chiamo i laboratoristi per il gruppo sanguigno e per la trasfusione urgente.
Faccio mettere la paziente in sala travaglio, perchè lì abbiamo una buona barella ed una luce discreta. Solo ora mi accorgo che con lei c’è una nuova creatura: una bambina in ottima salute, tra le braccia ndi una delle accompagnatrici. Raccolgo un po’ di storia. La paziente aveva deciso per il parto a casa, come già aveva fatto altre 3 volte.
E' arrivata in pessime condizioni a causa di una placenta ritenuta.
Aveva partorito il giorno precedente ed aveva continuato a sanguinare. Capisco adesso che l’uomo che si prende cura della mucca fuori è in realtà il marito: è arrivato esausto perchè aveva trasportato la donna su un "biroccio" in un viaggio durato 9 ore. 
Mi rendo conto che la mamma ha bisogno di sangue immediatamente: abbiamo provveduto subito alla trasfusione, che già stava gocciolando nelle sue vene dopo appena 15 minuti; abbiamo eseguito la rimozione manuale della placenta con un “briciolo appena” di anestesia in quanto la mamma era già di per sè quasi incosciente. Purtroppo però era troppo tardi. La malata è spirata dopo poco più di un'ora.
Solo a questo punto, su consiglio di una donna che più tardi si è presentata come la madre della paziente, chiamiamo il marito, che era rimasto fuori pieno di speranza.
Era poverissimo e lacero; sconvolto dalla grande perdita, non poteva darsi pace. Continuava a ripetere che non sapeva come fare adesso, anche perchè aveva altri bambini piccoli a casa.
Adesso la mucca ha ricominciato il lungo viaggio. Il “biroccio”, ancora sporco di sangue, e carico di donne meste, si allontana pian piano sulla strada polverosa che si dirige verso Mukothima.
Penso al dramma del dolore umano, al continuo intersecarsi di vita e morte; al mistero dei bambini che non conosceranno mai la loro mamma, e a quello delle giovani donne che piangono la scomparsa di un figlio adolescente magari “portato via” da una overdose. Morire durante il parto poi sembra proprio un controsenso, una condizione così
innaturale: una donna coltiva la vita nel suo grembo per nove mesi, e poi quando questa sboccia è come se le succhiasse l’anima a tal punto che lei se ne deve andare. 
Che mistero e che dolore grande! E’ meglio non pensarci tanto e rivolgere la nostra attenzione agli altri pazienti che ancora hanno bisogno di noi.

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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