venerdì 1 maggio 2015

Il machete ed altro

Strumento agricolo multiuso, venuto tristemente alla ribalta durante il genocidio del Rwanda nel 1994.
Da noi si chiama panga in Kiswahili, o gipanga in Kimeru. E’ un misto tra accetta e coltellaccio. Vagamente assomiglia anche ad una smimitarra.
Serve un po’ per tutto: tagliare l’erba per le mucche o il legname per il fuoco della cucina; ma anche rigirare le zolle di terra prima di seminare o sradicare le erbacce, proprio  come se fosse una zappa. Ne abbiamo una anche noi in macchina… non per difenderci dai malviventi, ma per scavare nel fango nel caso in cui ci dovessimo impantanare nella stagione delle piogge.
La panga è utilissima in certe cliniche mobili in cui ti devi avventurare in sentieri angusti e pieni di vegetazione alta: in questi casi si procede in fila indiana ed il “capo-cordata” si fa strada tra gli arbusti con tale strumento, che non solo ci permette di passare ma anche serve a spaventare ed allontanare i serpenti.
E’ anche usato nelle scuole primarie e secondarie durante le ore di “agricoltura”. Non è infrequete dover riparare il tendone di Achille ad un bambino ferito da un compagno di scuola, mentre insieme tagliavano l’erba del prato, senza tenere le dovute distanze di sicurezza.
Ma spesso la panga e’ anche l’arma a portata di tutti con cui si fanno danni estremi: e’ infatti pesante come un’ascia, tagliente come un pugnale… ed a buon prezzo: costa infatti quanto una bottiglia di birra.
In mano ad un ubriaco o ad un folle diventa un mezzo di distruzione che spesso lascia danni irreversibili.



Kawira per esempio era stata quasi uccisa e decapitata da un datore di lavoro pazzo.
Kaburu è stato ridotto in fin di vita dai ladri che sono entrati di notte nella sua casa, e lo hanno punito pechè li aveva visti ed aveva opposto resistenza.
Quante donne ho suturato dopo atti di violenza domestica perpetrata dal marito!
Quante volte ho dovuto completare amputazioni da panga: sovente si trattava di liti familiari legate ad un pezzo di terra; oppure poteva essere il gesto inconsulto di un marito accecato dalla rabbia per aver trovato un estraneo a letto con la moglie; mi è anche capitato di assistere a punizioni esemplari in cui un padre ha avuto il coraggio di tagliare il braccio destro ad un figlio accusato di avergli rubato una mucca.
Durante le violenze post elettorali del 2007 era il machete l’arma più usata per ferire ed uccidere. In quel periodo tanto triste, quando mi avventuravo per strada e incontravo gente che tornava dai campi munita di panga, il loro inseparabile strumento di lavoro, quasi quasi avevo paura: a volte loro la brandivano per salutarmi, ma a me venivano i brividi e speravo che non la volessero usare contro di me. Ora certo questa paura mi è abbondantemente passata, ma la panga rimane un’arma pericolosa e molto usata.
Solo negli ultimi anni a Chaaria sono apparse armi da fuoco, e con esse i primi morti e feriti da pallottola: la panga rimane lo strumento offensivo più usato dalle nostre parti.
Qualche volta comunque capita di dover assistere persone ferite con arco e freccia: quest’ultimo strumento di morte è molto popolare nel Tharaka, dove a volte la punta è anche avvelenata.
Ricordo casi molto brutti e dolorosi: penso ad una povera donna a cui il marito aveva conficcato una freccia nel fondoschiena... probabilmente lei tentava di fuggire da qualche atto di violenza, ma è stata raggiunta dalla freccia. Nel dispensario a cui si era rivolta non erano riusciti a togliergliela perchè la manovra le causava troppo dolore. Avevano quindi solo spezzato la freccia, lasciando la punta infissa nella carne, ed erano venuti a Chaaria con la paziente sdraiata sulla pancia nel cassone di un pick up.
Avevamo programmato l’operazione con urgenza perchè c’era anche un’imponente emorragia; onestamente speravamo che la freccia fosse adagiata nel tessuto muscolare del gluteo e che non avesse causato problemi agli organi interni, ed invece era penetrata profondamente, lacerando il retto e squarciano l’utero. Un danno incredibile che ha richiesto ore di lavoro in sala operatoria.
Per non parlare dell’altro caso in cui una donna aveva una freccia incuneata nel torace proprio davanti al cuore. Anche lei era una miracolata perchè la freccia era passata tangenzialmente allo sterno ma non aveva leso il cuore ci si trovava a qualche millimetro di distanza.
A Chaaria comunque non mancano neppure le pugnalate: di solito vengono usati dei coltelli da cucina o ad uso agricolo.
La pugnalata è normalmente molto subdola e traditrice: vedi una ferita di 2 centimetri i poco più; ti pare quasi una cosa da niente, ma lo sai che la lama è lunga e quasi certamente fa fatto disastri all’interno anche se l’emoragia esterna è minima.
Se è interessato il petto, quasi sempre ti devi preparare ad un drenaggio toracico, perchè sicuramente ci sarà aria e sangue nella cavità pleurica.
Se invece la pugnalata ho colpito l’addome, ti puoi aspettare di tutto quando entri in sala: abbiamo visto coltellate che hanno trapassato l’intestino in varie parti; altre che sono arrivate addirittura a sezionare la coda del pancreas; altre invece che si sono infilate direttamente nel fegato ed hanno causato sanguinamento importante.
La panga in modo particolare, ma anche coltellate, arco e frecce costituiscono per noi una fonte costante di emergenze, di complicazioni difficili da gestire, e di tanta preoccupazione. Per la gente sono certo causa di tanto dolore, a volte di danni irreparabili e di morte..


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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