giovedì 21 maggio 2015

Le mie frustrazioni

Catherine viene ricoverata per enorme epato-splenomegalia con anemia grave. Eseguiamo immediatamente un emocromo, e la sua emoglobina risulta di 3 grammi.
La prima cosa da fare è certamente la trasfusione: ci vorranno parecchie sacche di sangue per farla star meglio.
Ma all’emocromo c’è un’altra cosa che attira il nostro sguardo: un numero spropositato di globuli bianchi che superano i 350.000. La maggior parte di loro è costituita da granulociti neutrofili.
Ordiniamo lo striscio su sangue periferico ed otteniamo la diagnosi che già sospettavamo: ci sono tantissimi blasti in circolo, e quindi non ci sono dubbi sul fatto che si tratti di una leucemia mieloide.
Uno striscio così chiaro ci porta ad astenerci dal puntato midollare, che sarebbe costoso e molto doloroso per la paziente.
La diagnosi è fatta... e adesso?
Ora viene il momento più difficile!
“Catherine, hai una malattia del sangue che può essere molto pericolosa per la tua vita. Ci sono delle medicine che ti potrebbero guarire da questo male, ma dobbiamo mandarti al Kenyatta National Hospital a Nairobi. Cosa ne dici?”
Catherine ascolta stralunata e non smette di allattare il bimbo di nove mesi che ha attaccato al seno; il suo sguardo perso non mi permette di rendermi conto se ha compreso o meno la serietà della sua situazione.
“Io non ho un marito, e certamente non ho soldi per andare al Kenyatta!”.


E’ la solita trafila, la consueta frustrazione che proviamo di fronte a tali situazioni.
Fai la diagnosi e poi lì ti fermi, in tutta la tua impotenza.
Sono le occasioni in cui tocchiamo con mano il limite della medicina, quel confine invalicabile costituito dai nostri limiti umani e dalla scarsità delle nostre risorse, che in un ospedale rurale africano sono certamente molto più forti che in una clinica universitaria europea.
Che corsa potremo fare per Catherine?
Trasfonderla ogni volta che sarà necessario, cercare di domare il suo dolore quando sarà insopportabile... ma poco altro: non modificheremo di un solo giorno la storia clinica del male che la sta uccidendo.
E per la piccola che ha attaccata al seno che cosa potremo fare?
Purtroppo per lei penso che potremo fare ancor meno.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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