Non sono certo il fondatore della missione di Chaaria: è stato infatti Fr
Lodovico ad iniziare la grande avventura nel 1984; prima di me ci sono stati
altri Fratelli che si sono spesi per i poveri di questa zona, sia nel servizio dei
Buoni figli, sia in quello sanitario del dispensario.
L’ospedale però è un po’ il mio bambino che cerco di far crescere e di
proteggere tutti i giorni, un figlio che mi sono trovato tra le mani senza che
quasi io lo volessi: era il 1° marzo 1998, ed io giungevo al “Cottolengo
Centre” colmo di paure e di insicurezze.
Per sei mesi ero rimasto in Tanzania,
senza mai vedere un paziente, perché il mio compito era quello di studiare la
lingua.
Mi angosciavano le malattie tropicali, studiate così tanto sui libri a
Londra, ma mai realmente affrontate sul campo.
Mi spaventava anche la lingua:
mi ero impegnato molto per il kiswahili, per poi rendermi conto che la gente
illetterata parlava solo il kimeru, per me totalmente sconosciuto. Iniziai il
mio servizio in punta di piedi, quasi per non disturbare: accettai di buon
grado la proposta di Fr Maurizio di lavorare in laboratorio analisi, e di essere disponibile alle
chiamate per casi urgenti.
Il laboratorio mi affascinava, perché a Londra avevo
studiato tanta parassitologia ed ora per la prima volta potevo mettere a frutto
le cose imparate nel corso di “Master” londinese.
Furono mesi in cui il
laboratorio crebbe: iniziammo test nuovi e perfezionammo quelli già in atto.
Nel frattempo i pazienti gravi aumentarono. Il “tam tam” funziona più
velocemente di internet, e così i malati arrivarono a frotte, sempre più
complicati e malconci: ricordo il disagio da me provato all’inizio perché Fr
Maurizio mi diceva di visitare i pazienti mentre stavano seduti su una sedia.
Io veramente non ci riuscivo, e fu un grande giorno quando vidi la prima
barella su cui ebbi la possibilità di esaminare una persona.
Tante cose sono cambiate da quei primi tempi pionieristici, ed ora mi trovo
ad avere questo bambino ormai cresciuto, anche se non ancora maturo a
sufficienza per camminare da solo: ci sono servizi per pazienti ambulatoriali,
ma anche dipartimenti di medicina interna, malattie infettive, pediatria,
chirurgia generale ed ortopedica, maternità, ginecologia ed ostetricia.
Il
fatto che siamo cresciuti dal giorno in cui non avevamo neppure una barella su
cui far sdraiare il malato ad un ospedale di 160 posti letto mi sembra un vero
e proprio miracolo.
L’ospedale si è sviluppato senza un piano regolatore, perchè nè io, nè i
confratelli che erano con me e neppure i superiori sapevano con esattezza che
cosa volessimo fare: in realtà noi non abbiamo mai pensato di fondare un
ospedale; è stata la gente che lo ha voluto, venendo a frotte a cercare aiuto
nella nostra missione.
Anche le aree cliniche in cui il nostro ospedale si è
pian piano specializzato sono state indirizzate e dettate dai reali bisogni
della gente: siamo diventati una maternità perchè, quando dicevamo alle donne
che non avevamo un tale servizio, esse si sedevano al cancello fino a partorire
sulla strada: era giocoforza poi portarle dentro ed assisterle.
Ci siamo poi
avventurati nei tagli cesarei perchè portare le partorienti con complicazioni
fino a Meru con la macchina era spesso impossibile a motivo delle strade
impraticabili; inoltre, a causa delle pessime condizioni del viaggio, sovente giungevamo
all’ospedale di riferimento quando il feto era già morto.
Abbiamo iniziato con servizi di ostetricia e ginecologia perchè in quei
tempi si poteva morire anche solo per non avere i soldi necessari ad un
raschiamento uterino. Non potevamo accettare che ciò accadesse; ci siamo quindi
attrezzati, abbiamo studiato e con coraggio siamo partiti anche in tale
settore.
E che dire dei bambini! Era una vera e propria moria! Ne abbiamo visti morire
a frotte o di malaria cerebrale o di anemia grave causata dallo stesso
parassita: è stato un dovere morale iniziare con con i servizi di pediatria e
con quelli trasfusionali.
Non ne sapevamo molto, ma avevamo voglia di imparare
e di crescere, al fine di salvare quelle vite ancora così tenere.
Discorso simile si può fare per la chirurgia: in Africa è sempre molto
costoso farsi operare, e ciò porta con sè il fatto che sovente sono proprio i
meno abbienti a non potersi permettere un’operazione.
Quante volte ho visto perire
della gente perchè non aveva mezzi finanziari per farsi operare! Quanta povera
gente poi è rimasta storpia per sempre non avendo potuto afferire ad un
servizio di ortopedia dopo una frattura!
Anche qui non si poteva chiudere gli occhi e pretendere che il problema non
esistesse. Ecco perchè ci siamo buttati ed abbiamo tentato di dare risposte il
più possibile pertinenti e specialistiche pure in ambito chirurgico.
Come ho già detto, è stata davvero la gente che ha voluto questo ospedale,
continuando ostinatamente a venire nonostante i nostri limiti strutturali e
tecnici; sono stati i bisogni reali delle persone che hanno dato una forma alla
struttura che stava nascendo.
Quello che noi desideravamo era di poter dire di
sì a chi ci chiedeva aiuto nell’ambito della salute; lo volevamo fare con
coscienza e perizia, e soprattutto lo volevamo fare ventiquattr’ore su
ventiquattro.
Centrale è stata la fiducia dei superiori che hanno sostenuto ed
incoraggiato il nostro sogno di servizio incondizionato: non mandare via
nessuno, ma cercare di aiutare tutti e soprattutto coloro che non avrebbero
potuto permettersi un’altra struttura perchè troppo poveri.
Un altro problema è stato fin dall’inizio quello dell’acquisizione delle
competenze necessarie per aiutare la povera gente: io ero venuto come un internista
specializzato in malattie tropicali, ma ho capito presto che a Chaaria bisogna
essere medici a trecentosessanta gradi.
Sono stati i volontari ad insignami con
pazienza le nuove competenze: per me essi sono stati dei mentori, mentre io mi
sono sempre sentito come una spugna assetata di impregnarsi di tutte le loro
conoscenze, per poter poi usare nel servizio le cose che imparavo anche quando essi
sarebbero tornati in Italia.
Ecco quindi che Chaaria mi ha cambiato profondamente come medico e pian
piano mi ha reso anche chirurgo, ginecologo ed ortopedico.
Un ospedale come quello di Chaaria non può certamente essere in attivo:
dobbiamo tenere i prezzi bassi per non escludere nessuno; dobbiamo offrire
ugualmente tutti i servizi necessari pure a coloro che non possono pagare nulla.
Ci sono spese enormi da sostenere. Bisogna sempre costruire nuovi dipartimenti,
ristrutturarne altri, comprare nuove strumentazioni cliniche. Ecco quindi che
Chaaria è sempre stato l’ospedale della Provvidenza: sovente ci siamo trovati
in difficoltà economiche, ma alla fine i soldi sono sempre arrivati.
Una parte
degli aiuti proviene dalla Piccola Casa, una parte importantissima proviene dal
volontariato. E poi ci sono tantissimi piccoli benefattori che nel
nascondimento ci permettono di andare avanti atraverso il loro piccolo obolo,
prezioso come quello della vedova del Vangelo.
La mancanza di un piano di sviluppo preciso per l’ospedale ha avuto
naturalmente le sue conseguenze anche sulla struttura edilizia: Chaaria è un
ospedale un po’ disordinato, cresciuto come un fungo, venuto su sempre per
rispondere ad una nuova emergenza. In questo mi pare di poter dire che
l’ospedale di Chaaria è simile alla Piccola Casa delle origini, in cui ogni
nuovo servizio partiva dopo che il Cottolengo aveva incontrato un nuovo
bisogno.
Siccome poi il nostro scopo è sempre stato quello di servire le persone
meno fortunate, di non dire no a nessuno, e di tenere i prezzi bassi, il nostro
ospedale non ha mai puntato sulla bellezza architettonica, ma sulla capienza e
sulla funzionalità della struttura: ecco quindi che i cameroni ci sono parsi
più convenienti delle stanzette, in modo da poter ricoverare molta più gente ed
impiegare un numero inferiore di infermieri per l’assistenza.
In questa avventura ed in questo miracolo quotidiano sono sempre stato sostenuto
dai Fratelli che sono vissuti con me a Chaaria: penso a Fr Maurizio, a Fr
Lorenzo, a Fr Giovanni Bosco, a Fr Lodovico, ed ora a Fr Giancarlo.
L’ospedale di Chaaria ora è adolescente: certamente è grande e risponde ai
bisoni di salute di molta gente.
Tanto rimane ancora da fare per renderlo capace di camminare da solo e di
continuare a vivere anche senza di noi.
Ma quello di cui sono profondamente certo è che questo ospedale appartiene
alla Divina Provvidenza, che saprà come portarlo alla maturità, nei tempi e nei
modi che essa sceglierà, e saprà dargli un futuro ed una indipendenza
gestionale che ora ancora non intravvediamo.
Fr Beppe Gaido
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