lunedì 8 giugno 2015

Mutilazione genitale femminile

Per motivi legati all’infertilità, oggi ho dovuto visitare una giovane e bellissima ragazza del Nord: agile, alta e snella nel suo lungo vestito nero, essa traspirava un’aura fascinosa di mistero. 
Dai suoi occhi vivaci che non hanno mai visto un’aula scolastica, traspariva una mente brillante ed intelligente, pur se tarpata da motivi economici e sociali.
E’ venuta a Chaaria con il marito, dopo un lungo viaggio iniziato in un’arido villaggio non molto lontano da Isiolo.
Da anni è sposata, ma non riesce ad avere un bambino: cosa del tutto devastata nella cultura africana.
Sono scovolto quando la visito, aiutato dalla mia infermiera: inspiegabilmente mi viene da piangere e guardo Mama Sharon senza proferire una parola. 
Lei risponde con una triste occhiata complice e non proferisce verbo: la nostra paziente ha infatti una mutilazione genitale tremenda; le sono stati amputati completamente gli organi esterni. Quello che rimane è solo una lunga cicatrice scura ed inquietante.
No riesco neppure ad immaginare come per lei sia possibile anche solo urinare.
Spero di poterla aiutare ad avere un bambino, ma già sospetto che il tessuto cicatriziale che mi trovo davanti provocherà lacerazioni disastrose al momento del parto.



Che barbarie la mutilazione genitale femminile! Eppure è ancora così diffusa!
Quando vedo situazioni del genere mi viene da pensare che la pari dignità tra i due sessi è ancora un miraggio in molte parti del mondo... e, come tante volte mi capita da quando sono a Chaaria, un po’ mi vergogno di essere un maschio.
Nel mio cuore ho iniziato a chiamare questa sfortunata e giovane donna “the desert flower”.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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