giovedì 17 settembre 2015

Ancora violenza!

Sono le ore 21 ed abbiamo appena concluso la solita maratona diurna, nella speranza di non essere chiamati di notte.
Siamo or ora usciti di sala dove abbiamo concluso con successo il quarto cesareo della giornata, oltre alla nutrita lista operatoria... da quando c’è stato lo sciopero non abbiamo piu’ orari e non riusciamo a metterci in pareggio con gli interventi arretrati; il giorno e’ uguale alla notte ed i pasti non durano piu’ di cinque minuti.
Stasera sono veramente a pezzi.
Mi tolgo lentamente la divisa, madida di sudore e sangue per l’ennesima volta.
Ho il cervello piatto e non riesco quasi a pensare: mi auguro una doccia veloce ed un boccone di cena, che mi aiutino a recuperare qualche energia per il giro serale che ancora mi sta aspettando.
Mentre mi infilo la maglietta, pero’, odo in lontananza un suono di sirena appena percettibile. Continuo a vestirmi e tento disperatamente di illudermi: “sara’ certamente la polizia che insegue qualche malfattore!”.


Ma il fischio si fa sempre piu’ acuto e inquietante (odio quel rumore dai tempi della mia adolescenza, quando tante volte abbiam dovuto chiamare il 118 per mio papa!).
Ora lo sento fortissimo; mi auguro che prosegua dritto verso Kaguma, ma il rumore rimane fermo per qualche istante, finche’ il cancello dell’ospedale si apre ed sento il motore del pulmino arrestarsi davanti alla sala di attesa.
Niente da fare! Oggi non e’ ancora finita!
Istintivamente penso ad un cesareo, e mando fuori l’ostetrica a controllare la situazione.
Lei pero’ torna immediatamente e mi dice che si tratta di un caso di violenza.
Mi decido quindi ad uscire.
Gli infermieri della struttura da cui l’ambulanza proviene mi conoscono; sono molto felici di vedermi, mi salutano e mi chiamano per nome.
“Beppe, Beppe...il paziente e’ stato accoltellato”, mi dicono in coro.
Lo portiamo dentro dove c’e’ un po’ di luce.
Si tratta di un uomo sulla trentina. Ha un taglio evidente sull’avambraccio sinistro ed un altro sul torace da cui fuoriescono bollicine di sangue e aria: il coltello ha bucato il polmone e sicuramente ha un pneumotorace.
Ma la sorpresa piu’ spaventosa e’ quando gli infermieri rimuovono un foulard insanguinato attorno all’addome: dalla pugnalata sulla fossa iliaca destra e’ fuoriuscito l’intestino!.
I visceri sono molto edematosi e sofferenti, ma non paiono necrotici; sono pero’ coperti di terra ed erba secca.
La mia adrenalina endogena fa il suo lavoro e d’un tratto mi sento meno stanco.
Chiamo Fr Giancarlo, il quale accorre ed manda un messaggio all’anestesista (che, poverino, era andato a casa un quarto d’ora
prima). Poi coordina il lavoro di pulizia del malcapitato, mentre iom metto qualcosa sotto i denti. Prima delle 22 siamo in sala. L’anestesista intuba e curarizza il paziente per farci lavorare senza problemi. Noi apriamo l’addome e riposizioniamo i visceri.
Atanasio (questo il nome del paziente) ha avuto molta fortuna, perche’ la lama non ha causato perforazioni intestinali.
Laviamo quindi il peritoneo, copriamo le anse con teli imbibiti di fisiologica sterile e tiepida, e, dopo esserci assicurati che le anse fossrero vitali, richiudiamo la pancia, lasciando pero’ dei tubi di drenaggio.
Il secondo tempo operatorio e’ poi la sutura del petto, seguita da inserimento di drenaggio toracico a pressione negativa.
Da ultimo ci occupiamo del braccio dove ricostruiamo ventri muscolari e fascia.
In tutto impieghiamo quasi tre ore e andiamo a letto all’una.
La cosa che pero’ mi fa piacere e’ che ora Atanasio e’ stabile.
L’enfisema sottocutaneo al torace e’ quasi scomparso; all’auscultazione i polmoni sembrano espandersi rapidamente, e la situazione addominale e’ incoraggiante.
E’ stato davvero fortunato, ed e’ nostra fondata speranza che se la cavera’ senza troppi problemi.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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