mercoledì 21 ottobre 2015

Ieri notte

Erano le 3 di notte quando sono arrivati in ospedale tre giovani che avevano deciso di “sistemarsi per le feste” a vicenda con alcuni colpi di machete. Tutti avevano ferite sulla testa ed uno anche sulla mano destra. 
Li abbiamo suturati con pazienza: uno di loro aveva una piccola ferita superficiale ed è stato dimesso, mentre per gli altri due la situazione era ben più complessa ed ha richiesto il ricovero.
Alle 3.20, nel bel mezzo del lavoro di “cucitura”, è arrivata una chiamata dalla maternità rurale di Kaongo: “abbiamo una partoriente con disproporzione cefalopelvica, che è stata in travaglio da stamattina e non progredisce. Crediamo che abbia bisogno di un cesareo e chiediamo urgente trasferimento nella vostra struttura”.
E’ stato necessario coinvolgere Giancarlo per il trasporto in ambulanza...quella maternità infatti non è dotata di mezzi di trasporto!
Il lavoro di sutura era praticamente terminato quando la donna è arrivata in ospedale accompagnata da fr Giancarlo e da un nostro infermiere. E’ stata visitata dall’osterica della nostra maternità, la quale però ha espresso speranze che il parto naturale fosse ancora possibile. Ci ha chiesto quindi di non correre subito in sala per il cesareo, in quanto il battito fetale era buono e si poteva pensare di dare alla donna ancora un po’ di tempo per il travaglio.



La cosa non ci è dispiaciuta in quanto speravamo di poter prendere un po’ di sonno prima del mattino. Di solito le nostre ostetriche sono molto brave, e raramente si sbagliano.
Ci siamo quindi diretti verso le nostre camere sotto un cielo stellato e limpidissimo, nonostante la stagione delle piogge.
Andati a letto però, è stato un dramma tentare di addormentarsi: la tensione della chiamata notturna alle 3; l’adrenalina rilasciata per far fronte alle varie suture; il tempo trascorso in sala operatoria ci avevano svegliati fin troppo bene.
Ci siamo rigirati nel letto a più non posso, senza trovare una posizione: il materasso ed il cuscino sembravano di pietra, tanto erano duri e poco confortevoli.
Ho sentito ancora la campana della parrocchia che suonava per la messa alle 6; poi devo essermi finalmente addormentato.
Erano però passati solo 15 minuti quando i miei dolci sogni sono stati nuovamente interrotti dal telefono: “accidenti”, ho esclamato con una vena di disperazione.
“Doctor, vieni per un cesareo”: riconosco la voce squillante di Dorothy
“E’ la paziente di Kaongo?”, ho chiesto, tanto per dire qualcosa.
“Sì, è lei ed adesso c’è un distress fetale”
“Lo sentivo che non ce l’avrebbe fatta”, ho mormorato tra di me mentre, assonnato più che mai mi dirigevo alla stanza di Giancarlo per chiamare anche lui, che certamente non è in condizioni fisiche migliori delle mie.
Il cesareo comunque è andato benissimo: la spinale mi è venuta al primo colpo, l’estrazione del feto è avvenuta in meno di 4 minuti, e l’intervento  non è durato più di 30 minuti dal primo taglio sulla cute all’ultimo punto di sutura. Soprattutto, il bimbo è nato in ottime condizioni: ha pianto subito ed ha persino urinato in sala mentre ancora era sul lettino operatorio.
Peccato che poi ci sia stato solo in tempo di una rapida colazione prima dell’inizio del consiglio di amministrazione dell’ospedale, proprammato per oggi da tantissimo tempo.
Dure notti di Chaaria, da cui non c’è mai tempo per riprendersi, in quanto di giorno poi non ci si può riposare, ma si continua a correre!

Fr Beppe Gaido




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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