giovedì 12 novembre 2015

Le nostre notti in bianco

Ieri era mercoledì e, come al solito, ho partecipato alla lezione per i medici a Meru al fine di ottenere dei punti ECM, obbligatori anche qui.
Mentre ancora la presentazione era in corso, ho sentito i primi scrosci di pioggia e mi sono precipitato alla macchina, senze aspettare la conclusione.
Arrivato alla strada sterrata, la fine pioggerellina di Meru è diventata un diluvio universale: tonnellate d’acqua che si riversavano su una strada ormai ridotta ad un acquitrino in certi punti, e ad un torrente impetuoso in altri, dove la discesa concedeva all’acqua di prendere velocità e di creare rivoli impetuosi ed assai pericolosi per la guida.
Con le quattro ruote motrici più o meno riuscivo a venire avanti: il vero problema è stato trovare molti veicoli completamente impantanati nel fango.
E’ stato difficile evitarli e proseguire il ritorno in ospedale.
Ci ho messo quasi due ore a tornare a casa, e questo ha molto ritardato il mio giro serale per la visita dei nuovi ricoveri.




Ero stanco, ma i malati avevano il diritto alla mia attenzione, visto che sono l’unico medico di guardia.
Ho quindi stretto i denti ed ho lavorato sodo.
Erano quasi le 23 quando ho finito tutto ed ho deciso che avrei potuto andare a dormire, ma ecco la nuova sorpresa, un sms dalle suore di Mukothima: “partiamo adesso con una donna che necessita di cesareo urgente”.
Mi sento quasi svenire ed ho voglia di urlare, ma non c’è nulla da fare perchè questa è un’emergenza  a cui bisogna dare una risposta.
Provo ad attendere in piedi l’arrivo dell’ambulanza, ed a tenermi impegnato preparando la lezione che tengo ogni giovedì mattina per i nostri infermieri.
Ma non ce la faccio proprio, oggi è stata una giornata molto pesante e penso che la cosa migliore sia di sdraiarmi a letto un po’: Mukothima è lontana; la strada è sterrata e con queste piogge chissà a che ora arriveranno.
Siccome sono un po’ teso per il cesareo che devo fare, in realtà chiudo solo gli occhi ma non riesco a prendere sonno: passa il tempo ed ho modo di rendermi conto di tutti i rumori della notte di Chaaria, che silenziosa non è proprio mai.
Ci sono canti di grilli e cicale; nella stagione delle piogge poi c’è un sottofondo continuo di versi di rospi e rane; di tanto in tanto si fanno sentire gufi, civette e barbagianni; mentre anche le nostre scimmiette si richiamano l’un l’altra con versi acuti e stranissimi.
E’ l’una di notte quando il cercapersone mi chiama di nuovo: sono arrivati e la paziente è pronta per la spinale.
Prego il Signore che mi aiuti con l’anestesia, che è sempre il mio incubo durante le emergenze notturne, e poi spero in un cesareo il più  breve possibile, per poi tornare a letto e recuperare un po’ di forze.
Purtroppo però in sala capita di tutto: la spinale è difficilissima, il bimbo è molto grande e la mamma complica con lacerazioni uterine ed emorragie arteriose che facciamo molta fatica a a controllare.
Lavoriamo intensamente, in un clima di stress elevato a motivo delle tante complicazioni.
Per fortuna alla fine sia mamma che bambino sono stabili e stanno bene.

Ma il tempo passa inesorabile e, quando mi accingo a scrivere l’intervento, sono già le tre del mattino.
Torno subito a letto, ma addormentarmi è così difficile!
Che strano non riuscire ad appisolarsi proprio quando si è più stanchi.
Mi giro e mi rigiro finchè ad un certo punto sento la campana della parrocchia: sono già le sei, ed è meglio alzarsi per la preghiera; tanto sembra che oggi non ci sia proprio verso di dormire un po’.
Mi aspetta una giornata altrettanto dura.
Spero di averne la forza, e soprattutto spero che la notte che seguirà possa essere un po’ migliore.


Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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