martedì 1 dicembre 2015

Quando potremo superare il razzismo?

E' un problema che mi tormenta sempre.
Sogno un tempo in cui, come diceva Martin Luther King Jr, saremo giudicati da quello che valiamo davvero, e non dal colore della nostra pelle o dalla latitudine da cui proveniamo.
Eppure anche qui a Chaaria il colore della pelle conta sempre, e tanto.
Se sei bianco, puoi stare sicuro che i prezzi di qualunque cosa per te saranno più alti.
Sempre per strada, quando te ne vai per i fatti tuoi, qualcuno ti urlerà, e non sai neppure perchè: "Mzungi, Mzungu (Bianco, Bianco)".
Io non ci ho fatto l'abitudine ed ancora ci soffro, anche se sono qui da molti anni: possibile che dopo tanto tempo io sia solo un bianco, e proprio qui a Chaaria, dove spendo notti e giorni di fatiche immani nel servizio dei malati? Magari che mi urla per strada l'ho fatto nascere io oppure l'ho salvato da una malaria cerebrale, ma per lui io sono uno diverso pure oggi, a cui urlare la diversità anche quando io non lo sto affatto importunando.
E' esperienza frequentissima per me sentire una mamma in pediatria dire al suo bimbo: "tega muchunku" (guarda il bianco). Quando sento tale frase pronunciata da una mamma mi viene da urlare e le vorrei dire: ma perchè non gli dici invece di guardare il dottore che si
prende cura di lui, o il missionario che dà la vita qui in Africa... il bambino deve guardare proprio il fatto che sono bianco e che quindi devo essere diverso, forestiero e lontano?


Un mio amico chirurgo, africano di nascita ma dal cuore molto aperto alla mondialità, un giorno mi disse durante un'operazione:"guarda! il diverso è solo il colore della pelle. Sotto di essa i colori e le strutture anatomiche sono esattamente le stesse tra il mio ed il tuo organismo".
Ma allora perchè tanta gente non lo capisce? Con tanti organi a disposizione con cui potremmo indicare la nostra uguaglianza, noi scegliamo proprio la pelle, che incidentalmente è diversa, e solo a causa di differente esposizione ai raggi ultravioletti.
Domenica pomeriggio ho avuto due ore libere ed ho guardato con alcuni amici africani lo stupendo film "12 anni schiavo": devo dire che, guardato qui a Chaaria, quel film è una coltellata nello stomaco e ti fa sentire un verme. Ti fa vergognare di essere bianco, anche se tu non sei nè uno schiavista, nè un colonizzatore.
Oggi invece un bambino della pediatria mi ha fatto vedere il libro di storia che stanno usando alle "primary schools". Mi ha fatto leggere una parte di storia recente che riguarda l'eroe nazionale del Sud Sudan John Garang. Nella pagina che egli mi offerto per la lettura, si raccontava che un giorno John Garang era stato arrestato in Kenya durante il tempo della colonizzazione inglese: onestamente non lo sapevo e me ne sono stupito. Ho letto che in prigione ha trovato anche molti attivisti kenyani dell'indipendenza nazionale ed è diventato loro amico. Ecco perchè poi il Kenya lo ha aiutato fino al raggiungimento dell'indipendenza dal Nord Sudan. La la cosa che ancora mi ha ferito è il fatto di aver letto che in quel carcere c'erano celle di tre classi diverse: quelle di prima classe erano per i bianchi: quelle di classe intermedia per gli asiatici (ndr indiani) e quelle di infima classe erano per gli africani. A questa descrizione seguiva il commento di John Garang:"noi siamo i padroni di questa terra, ed anche in carcere ci spetta il trattamento peggiore".
Una grossa tristezza mi ha invaso. Io certamente non ho nulla a che fare con le ingiustizie coloniali, ma i bambini queste cose le leggono a scuola. Come pensiamo che le prendano? Certamente anche a loro faranno male e si sentiranno feriti.
Il presente qui soffre ancora pesantemente per il male fatto dalla colonizzazione bianca, e noi, pur essendo missionari votati all'aiuto della gente, veniamo in qualche modo ancora associati a quel passato doloroso.
Non so quando questo potrà essere superato.
Credo che ci vorranno generazioni!

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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