martedì 23 febbraio 2016

Agnes

Se penso alle donne che ho incontrato a Chaaria in tutti questi anni sono davvero moltissime quelle che mi hanno colpito profondamente.
Agnes è così. È arrivata stamattina per un’ecografia, incinta all’ottavo mese. Le ho messo le mani sulla pancia e ho notato subito qualcosa di strano, ma ho proseguito con l’esame fino all’evidenza che non lascia dubbi. “Quand’è l’ultima volta che hai sentito il tuo bimbo scalciare? “Prima”, mi ha risposto. “Sono sicura. Perché? C’è qualche problema?”. 
Avrei voluto non doverle rispondere, far parlare qualcun altro al mio posto, ma c’ero solo io con lei in quella stanza. Con tutto il coraggio che avevo, anzi, che non avevo, le ho detto tutto d'un fiato, senza guardarla negli occhi: “Il battito cardiaco è cessato, il tuo bimbo purtroppo è andato in Paradiso”.
Mi sono chiuso come un pugile nell’angolo del ring, pronto a ricevere una scarica di pugni. Agnes è scoppiata in un pianto senza fine.


Disperata, continuava a ripetere: “Why, God? What will be of my life?”
(Perché Dio? Cosa ne sarà della mia vita?). 
“Doctor, dimmi perché perdo tutti i miei figli quando sto per arrivare al termine. Mi avevi detto che mi avresti aiutato. Avevi chiesto ai tuoi amici attraverso Internet. Ti avevano consigliato di darmi delle medicine e io le ho prese tutte. Perché allora? Perché?” È la quarta volta che le capita.
Non ha ancora figli, ora rischia pure che suo marito la mandi via.
“Cos'ho fatto di male? Perché Dio mi punisce così?”.
“Non hai fatto nulla”, le ho risposto accarezzandole la guancia. “Mi dispiace tantissimo, non so cosa ti stia succedendo. Scriverò ancora.
Parlerò anche con altri medici, ma tu devi farti forza. Dobbiamo togliere il tuo bambino dalla pancia, altrimenti rischi anche tu”.
“Non voglio, non voglio! Voglio solo morire anch’io, insieme a lui.
Non ne voglio altri, non posso provare di nuovo. Ho sofferto abbastanza. Lasciami morire, ti prego...”.
Non ho detto quasi nulla, non avevo spiegazioni. Parlare sarebbe stato peggio. Le ho solo sussurrato che la settimana scorsa abbiamo avuto la gioia di far nascere il primo figlio a una donna che aveva abortito per sei volte.
Dopo qualche ora Agnes si è calmata. L’ho operata, adesso è di là, sta riposando. Ha degli occhi molto profondi. Dentro, si scorge un abisso di dolore. Almeno, non piange più.

Fr. Beppe




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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