mercoledì 24 febbraio 2016

Morte improvvisa

Sto visitando una donna nel mio studio, ed improvvisamente sento un vociare inconsueto nella sala di aspetto. Sembra una cosa diversa dal solito “ruggito” di coloro che si lamentano perchè aspettano da troppo tempo.
Un attimo dopo odo un bussare concitato sulla mia porta.
Devo quindi lasciare a metà l’ecografia che sto facendo per andare a vedere che cosa stia succedendo.
Vedo il watchman tutto agitato che mi ripete più volte: “qualcuno è venuto meno nel gabinetto lì fuori”
Per chi non è stato a Chaaria, descrivo il fatto che ci sono dei semplici servizi igienici a turca appena dopo il cancello d’ingresso in ospedale. Fungono da servizi igienici per la sala di attesa ma anche da luogo in cui per esempio i clienti ambulatoriali raccolgono i campioni di feci o di urine per gli esami di laboratorio.
Corro quindi verso questa struttura e faccio fatica a farmi largo nella folla di curiosi che si agitano e lanciano urla di disperazione.
All’interno dei servizi trovo una donna priva di sensi, ma ancora viva. Sembra stia dando gli ultimi respiri.
Fortunatamente un’infermiera mi aveva seguito con il set per la rianimazione.
Riteniamo più prudente agire subito, senza perdere tempo a cercare una barella per portare la paziente in ambulatorio.
Prima di tutto proviamo la pressione, che però è imprendibile.
Jesse è comunque bravissimo ad incannulare una giugulare esterna in quella posizione scomodissima con paziente sdraiata sul pavimento.


Pratichiamo adrenalina in vena e sosteniamo l’attività respiratoria con l’ambu. Usiamo anche del cortisone, ed eseguiamo qualche esame urgente con gocce di sangue dai polpastrelli, in quanto le vene sono tutte collassate.
La pressione però non sale e la malata pian piano va in bradicardia spinta. Bisogna dunque anche “massaggiarla”: ci prova Jesse, mentre io mi occupo dell’ambu. Intanto mettiamo una infusioine continua con dell’efedrina, visto che al momento dall’Italia non riusciamo più ad avere donazioni di dopamina.
Tutto però si dimostra vano, ed il cuore si ferma inesorabilmente.
Inutile continuare a ventilare con l’ambu!
Confermiamo la morte anche con il monitor che indica assenza di attività cardiaca con una linea persistentemente piatta.
Un clinical officer che è stato con noi durate la rianimazione cerca di capire qualcosa della paziente. Non la conosciamo perchè le carte che ha con sè sono tutte di altre strutture sanitarie.
Forse veniva a Chaaria per la prima volta!
Dai documenti veniamo a sapere che si tratta di una donna ipertesa da molto tempo. Quello che ipotizziamo è che lei abbia avuto una crisi ipertensiva, a cui sia succeduto un infarto del miocardio od un edema cerebrale che non siamo riusciti a controllare.
L’abbiamo comunque persa e non siamo riusciti a salvarla. Dalle stesse scartoffie veniamo a sapere che aveva 50 anni.
Tra la folla concitata e urlante il watchman identifica fortunatamente una donna in lacrime che conferma essere parente della defunta: pur nel dolore che proviamo per aver perso in ospedale una persona che neppure conoscevamo, siamo comunque sollevati, perchè avere un cadavere in obitorio di cui non si conoscono parenti è un altro grandissimo problema.
Lascio a questo punto alla “matron” il compito di organizzare tutto il resto (trasporto in camera mortuaria, documenti per il certificato di morte) ed io ritorno lentamente verso il mio studio... ed è solo entrando dalla porta che mi ricordo di aver lasciato una donna a metà
ecografia. E’ ancora là che mi aspetta traquilla e senza alcun segno di insofferenza. Riprendo l’esame diagnostico interrotto bruscamente e cerco di rimanere padrone di me stesso e di ritrovare la calma necessaria per continuare con l’ambulatorio.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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