sabato 12 marzo 2016

La malaria cerebrale

La piccola Kendi è arrivata in ospedale alle 8 in punto con la sua mamma che me l’ha messa fra le braccia, piangendo e con una supplica negli occhi. 
Ha nove mesi, pesa meno di cinque chilogrammi. Il suo corpicino é rovente e scosso da continue convulsioni. Con una cadenza quasi ritmica s’inarca sulla schiena e disegna un semicerchio. Kendi non è cosciente, ma deve provare molto dolore, respira con estrema fatica.
Mi rendo subito conto che la situazione è molto grave. Ho paura, ordino ugualmente che le facciano del barbiturico in vena. 
E’ rischioso, ma se non agiamo rapidamente, il suo cervello verrà ridotto in poltiglia dai prolungati attacchi epilettici. 
La madre si dispera e mi dice che è la prima volta che capita, la bimba non è epilettica. Lo so è la malaria che causa tutto questo. Pochi minuti dopo l’iniezione, il corpicino di Kendi si distende in un coma profondo e posso procedere all’esame di laboratorio che mi conferma una malaria cerebrale. Inizio subito con il chinino che mi fa ben sperare. 
I bambini rispondono in modo straordinario a questo farmaco e spesso sono svegli già dopo la terza dose. 


Con questa speranza dico alla mamma che l’indomani la sua bellissima bambina le sorriderà nuovamente e si attaccherà al suo seno ora turgido e dolente. La donna pende dalle mie labbra, vorrebbe credere a quanto affermo, ma i suoi occhi tristi mi fanno capire che nutre molti dubbi. Le gravi condizioni generali della piccola giustificano le sue perplessità.
La malaria purtroppo è sempre traditrice. Le cose non vanno come avevo sperato e mi rendo conto di avere illuso quella mamma. Kendi riprende quasi subito con le crisi epilettiche e dobbiamo metterle il valium in infusione continua. Siamo tutti tesi in un silenzio carico di angoscia. 
La mamma non piange più, il suo sguardo è fisso nel vuoto, assente. Sono obbligato ad allontanarmi per occuparmi anche di altri ammalati. Dopo pochi minuti la donna bussa alla porta del mio ambulatorio e mi dice disperata: “ Kendi sta vomitando del materiale nero come il carbone”. 
Mi sento male dentro, tutte le volte che si verifica un’emorragia gastrointestinale nei piccolissimi, non riusciamo a salvarli. ”
Corro da Kendi e cerco di rassicurarla rassicurare la donna, ma questa volta so di mentire. Dopo neppure mezz’ora la madre ritorna a cercarmi: “Kendi non riesce più a respirare “. Ancora una volta tento di tranquillizzarla “Le somministriamo l'ossigeno e vedrai che migliorerà.” Lo dico in modo concitato, lei mi guarda incredula.
Rimaniamo in silenzio accanto alla piccola Kendi che se ne sta andando in cielo. La mamma si aggrappa al mio braccio: “Dottore fai qualcosa, salvala!”. Vorrei scomparire. Prescrivo tutti i farmaci di rianimazione che abbiamo a Chaaria. La bimba fa dei respiri sempre più lunghi e sempre più diradati. Poi contrae i muscoli della faccia, stende le piccole braccia e le gambe in un’estrema e prolungata contrazione e ci lascia.
La madre la tocca due volte, aspetta una conferma di quanto già sa.
Io non parlo, faccio un segno di diniego, muovendo impercettibilmente la testa. Lei capisce e inizia a rotolarsi sul pavimento, piange e urla disperata. 
Dico agli infermieri di starle accanto e di lasciarla piangere finchè non accenna a calmarsi. Io mi sento impotente, provo una tremenda sensazione di fallimento che mi devasta e mi deprime, come il primo giorno che ero a Chaaria. Alla morte dei bambini non si può, non ci si deve abituare. 
Le grida disperate della madre sono per me tante coltellate al cuore che mi feriscono oggi come all’inizio della mia carriera di medico. Mi sento tutto invaso da un dolore acuto, ma devo ricompormi, mi hanno avvertito che c’è un’altra bambina che ha bisogno di me, con urgenza.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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