Ann ha 32 anni e si
presenta in ospedale con una grossa tumefazione della loggia renale sinistra. E’
in preda ad una terribile sofferenza.
Sembra un dolore della
fossa iliaca sinistra più che della massa che le sporge dalla schiena: infatti
cammina piegata a novanta gradi perchè la posizione eretta per lei è troppo
dolorosa.
E’ così sofferente che le
scappano parole forti, come per esempio: “sto morendo! Questa volta proprio non
ce la faccio!”
Se il male non fosse dal lato
sinistro, con irradiazione alla gamba sinistra, direi che la sintomatologia
potrebbe farmi pensare ad un ascesso peri-appendicolare.
Faccio l’ecografia sulla
massa del fianco e mi rendo conto che è liquida, seppur contenente un materiale
denso che potrebbe essere sangue o pus.
Penso immediatamente ad
un ascesso dello psoas, che da noi non è così raro.
La posizione antalgica
con cui la paziente cammina è possibilmente dovuta all’irritazione dei muscoli
della parete addominale.
Con una siringa faccio un
prelievo diagnostico che conferma la natura liquida della massa.
Quello che aspiro lo
mando immediatamente in laboratorio, al fine di ottenere un’accurata diagnosi
differenziale con la tubercolosi della colonna con ascesso ossifluente, che è
anch’essa frequente nella nostra casistica. Il pus che ho ottenuto sembra
comunque quello classico che i vecchi libri di patologia generale chiamavano
“bonum et laudabile”...onestamente non credo che sia TBC.
Procediamo quindi alla
terapia chirurgica.
Con paziente messa sul
fianco ed anestetizzata con ketamina, incidiamo orizzontalmente la massa in una
piega della cute e ne otteniamo una quantità industriale di pus, che
raccogliamo in varie arcelle.
Con un dito eliminiamo
tutte le sepimentazioni interne e ci rendiamo conto che la raccolta,
assolutamente extraperitoneale, cola comunque fino alla fossa iliaca sinistra,
in un tragitto formatosi davanti all’ala iliaca.
Disinfettiamo l’interno
della cavità sia con acqua ossigenata che con betadine, e poi zaffiamo
abbondantemente con garze, evitando la sutura.
La cosa migliore per
queste patologia infettive tropicali è infatti una guarigione per seconda
intenzione e collabimento della cavità interna. Suturare la cute creerebbe un
vuoto all’interno, e questo predisporrebbe ad una nuova ricrescita di germi,
anche anaerobi, con possibile recidiva.
Due giorni dopo la
procedura chirurgica, la medicazione non dà più molto pus, e soprattutto la paziente appare vispa ed
arzilla. Non dice più che si sente morire, ma ripetutamente chiede di essere
dimessa e di essere medicata in un dispensario vicino a casa. Naturalmente è
coperta da una robusta terapia antibiotica che sta contribuendo alla sua
guarigione.
Sono davvero i miracoli
della chirurgia tropicale; sono quei momenti in cui ti senti di aver fatto
qualcosa di importante per una persona: era arrivata a Chaaria pensandosi
vicina alla morte, ed ora è felice e chiede di tornare a casa per prendersi
cura dei propri bambini.
PS: nella foto mi vedete
con il Dr Filippo Gallo (Ginecologo) e con Carmen, sua moglie. Paolino , il
loro anestesista, era già in macchina per la partenza.
Sono tornati in Italia
ieri dopo un periodo di intenso servizio ai nostri ammalati ed ai Buoni Figli.
Essi appartengono al CCM
(comitato Collaborazione Medica) di Torino.
Li ringraziamo
sinceramente per tutto quello che hanno fatto a Chaaria.
Fr Beppe Gaido
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