giovedì 7 luglio 2016

I colori di Chaaria

Oggi certamente abbiamo centinaia di pazienti ambulatoriali, ed il carico di lavoro e’ alle stelle.
Con occhio impaurito e un po’ sconsolato, do uno sguardo alla sala di attesa colma di gente. Sembra un formicaio, ma anche un caleidoscopio di razze.
Oggi abbiamo moltissimi malati da una comunità nomade di etnia Rendille: sono carini, seminudi; puzzano di mucca ad un chilometro; hanno le borracce a tracolla e l’inseparabile lancia anche durante l’ecografia; le donne portano anelli sui bicipiti, ai polsi ed alle caviglie; sfoggiano decine di girocolli tradizionali (meno male che di solito non mi chiedono l’ecografia tiroidea), ed hanno buchi enormi ai lobi delle orecchie.
Anche questo mi sembra un dono di Dio, che ha deciso di fare del nostro ospedale non solo un luogo ecumenico (i Rendille sono animisti, i Somali musulmani, e la maggior parte delle altre etnie e’ polverizzata in una miriade di denominazioni cristiane talvolta sconosciute), ma anche un luogo di incontro fra tribù: oggi nell’atrio vedo Meru, Kikuyu, Akamba, Borana, Somali, Turkana, Luo, Kisii e Rendille; ma ci sono anche alcuni Pakistani ed Indiani residenti a Meru.
In mezzo a tutti questi colori di pelle diversi ad un certo punto noto un classico “viso pallido”: quindi oggi ci sono anche dei bianchi tra i nostri pazienti. E’ una volontaria italiana di un’altra missione che non si sente tanto bene e che ha pensato di venire a Chaaria per le cure.
Che bello!

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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