venerdì 4 novembre 2016

Storie di mamme coraggiose

La donna africana è un monumento di pazienza, laboriosità e fedeltà di cui non si può che essere profondamente impressionati. È il pilastro della società. Ne ho conosciute tante. Tutte diverse. Tutte forti e fragili allo stesso tempo.
Eunice è una di queste. Faceva l’infermiera qui da noi, era tra le migliori. La prima volta che l’ho vista stava partorendo il suo primo figlio tra le mie mani. Era il 1998. Io ero appena arrivato e il Chaaria Hospital sembrava un miraggio. Avevo cercato di convincerla a partorire a Nkubu, dove avrebbe trovato una sala parto attrezzata e personale con una lunga esperienza. Ero alle prime armi, non c’era nemmeno la sala parto. Se la situazione si fosse complicata avrei dovuto trasportarla altrove, su strade allagate e disagiate. Ma lei aveva deciso di farsi seguire da me, aveva piena fiducia. Per fortuna andò tutto bene, nonostante la mia ansia. 


Anche per il secondo figlio non volle sentire ragioni. Purtroppo però questa volta il travaglio si complicò. C'era sofferenza fetale, le serviva un cesareo. Noi non lo sapevamo ancora eseguire, non avevamo neppure un anestesista. Ricordo che Eunice fu irremovibile: “Voglio che sia tu a operarmi!”. Ero tesissimo, mentre lei aveva una serenità  incredibile. Anche quella volta, non so come, ebbe ragione lei. Feci l'intervento, il bambino nacque senza problemi. 
Qualche settimana fa purtroppo il piccolo è stato colpito da una forma molto grave di malaria. Non sono riuscito a trovargli la vena per la trasfusione e sono stato costretto a trasferirlo a Nkubu, dove opera  un chirurgo capace di cercare una vena della caviglia con un'operazione che si chiama cut down. Io non l'ho mai vista fare, non potevo permettermi di tentarla così, da incosciente, e proprio su questo bambino. Eunice ha accettato il mio consiglio, ha apprezzato la mia umiltà. 
È rimasta lì, quasi immobile, durante tutta l’operazione. I medici però non sono riusciti a portarla a termine, la situazione sembrava davvero disperata. Eunice era rassegnata. 
Ma come un’apparizione, improvvisamente le si è avvicinata una sua vecchia compagna di studi. Impassibile, con uno sguardo sereno, le ha messo in mano un ago e le ha detto: “Adesso tocca a te. Provaci, insisti, e vedrai che riuscirai”. Eunice, senza dire una parola, ha eseguito. È stata fantastica. Si è mantenuta fredda, ha resistito alle terribili emozioni di una mamma che buca le braccia e le gambe di suo figlio, ha infilato l’ago. Ce l’ha fatta. Ha preso la vena e la flebo ha cominciato a funzionare. 
In poco meno di una settimana suo figlio si è ripreso completamente. 
L’altro ieri è tornata a lavorare. È radiosa, dice grazie a tutti, anche a chi non c’entra nulla. Ma il merito è tutto suo. “Come ti senti?”, le ho chiesto stamattina. “Cosa ti è rimasto di questa terribile e, assieme, straordinaria esperienza?”. “Veder morire tuo figlio, sangue del tuo sangue, è una cosa senza senso, inaccettabile. 
Spesso, facendo il nostro lavoro, non diamo tempo alle mamme di piangere, di sfogarsi, di urlare”, mi ha risposto. “Diciamo loro che non devono fare così, che ci sono altri che soffrono in ospedale, e puntualmente ce ne andiamo con la scusa che abbiamo un’urgenza da seguire. Invece dobbiamo essere più attenti e disponibili al pianto disperato delle mamme che perdono i loro bambini. Sempre. Anche quando siamo stanchi morti. Anche quando vorremmo correre via per non caricarci di questo peso. Dovremmo stare lì, con loro. Anche zitti, ma stare lì. E non abbandonarle proprio quando si sentono perse”. 

Fr. Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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