martedì 4 aprile 2017

Il peccato, ma non il peccatore...

Ho visto dei malati buttati sul letto nei loro vestiti di casa, perche’ non c’erano divise in quell’ospedale. Puzzavano di urina in modo terrificante, ma non c’era un operatore sanitario pronto ad assisterli, e sovente non avevano parenti.
Mi sono trovato davanti a dei letti sui quali giacevano persone cosi’ deboli da non poter muovere un dito. Su uno sgabello vicino alla testiera del povero giaciglio senza lenzuola c’era un piatto pieno di fagioli, su cui si posavano le mosche... ma non c’era nessuno per imboccare quei disgraziati.
Ho alzato la testa, ed il mio sguardo ha incrociato l’occhio fisso e vitreo di una donna ridotta pelle ed ossa. 
Era veramente uno scheletro dall’aspetto vecchieggiante, anche se la sua eta’ avrebbe potuto essere forse di 25 anni. 
Da suo giaciglio emanava un tanfo indescrivibile, forse un misto di sudore, escrementi ed urina. Aveva in mano un arancio sbucciato (chissa’ da quante ore lo teneva li’!), ma non aveva la forza di portarselo alla bocca riarsa e piena di ulcere... anche lei era completamente sola.
“Sara’ piena di piaghe da decubito?” ho pensato, considerando l’apparente assenza di cure infermieristiche.


Ho quindi girato lo sguardo ed ho visto un drappello di infermieri che tranquillamente conversavano seduti attorno ad un tavolo, apparentemente ignari della terribile situazione dei malati a loro affidati.
Ho cercato Florence, malata terminale di HIV, ma il suo letto era vuoto: mi sono quindi avviato al gruppo di infermieri ed ho chiesto loro dove avessero portato la mia paziente. Mi hanno risposto che non sapevano e che forse era andata a fare una passeggiata in cortile.
“Ma come potete dire questo? Florence è terminale!!!”
Sono ritornato verso quel letto vuoto, mi sono guardato intorno ed ho svelato il mistero: Florence era per terra, morta...nessuno se ne era accorto, e nessuno si è degnato di venire ad aiutarmi mentre tiravo su quel cadavere ormai rigido e freddo...hanno continuato a chiacchierare come se niente fosse.
Mi sono quindi avviato verso l’uscita del reparto... avevo la testa confusa ed un bruciore terribile dietro i bulbi oculari... “Devo uscire in fretta; se no, mi metto a piangere qui davanti a tutti!”.
Non e’ importante dire dove io l’abbia visto, e nemmeno di quale nazione si tratti! Cose del genere capitano in tutto il mondo!
Quello che so e’ che davvero ne sono stato testimone oculare, e che da allora tale scena e’ diventata per me come un’icona ed un pungolo: pur con tutti i nostri limiti, Chaaria deve essere assolutamente diversa.
Deve essere un luogo di accoglienza cristiana, una casa per chi e’ abbandonato, un ospedale in cui la persona viene assistita in modo globale senza dimenticare i bisogni piu’ elementari, un rifugio per chi e’ handicappato e disprezzato dalla societa’.
Spero che mai succeda a Chaaria quello che ho visto quel giorno in un posto che ora non e’ importante citare, ma che ha segnato per sempre la mia vita di medico e di religioso.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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