mercoledì 21 giugno 2017

Prolasso di cordone

Avevo appena lasciato la sala grande dopo un addome acuto.
Mbabu era impegnato perche’ il paziente era ancora intubato. Mi vedo davanti Carol che con disperazione cerca una barella, in questi  giorni impresa quasi impossibile, vista la densita’ dei pazienti ed il numero di interventi; Carol non spreca molte parole e mi dice: “prolasso di cordone”.

In un attimo rivedo quanto mi e’ successo solo due giorni fa, quando sono stato chiamato dalla cappella per la stessa ragione: allora avevo inciso l’addome a paziente quasi sveglia ed avevo cercato di lottare contro il tempo…ma la morte era arrivata prima di me, che mie ero affannato invano.  Pur avendoci messo meno di sessanta secondi tra la cute e l’utero, il piccolo non ce l’aveva fatta.Anche oggi si trattava comunque di provare a lottare non solo contro il tempo, ma contro i secondi.
Dalla nostra parte oggi avevamo  il fatto che la presentazione del feto fosse podalica: quindi potevamo sperare che la parte presentata non comprimesse molto il cordone contro la parete ossea della pelvi. Mbabu non era disponibile perche’ stava estubando l’altro paziente. Jesse oggi era di riposo.
Ovviamente l’unico anestesista presente ero io. Apophie si e’ lavata alla velocita’ della luce.
Io ho dato il massimo con ketamine e valium…ed oggi, con nostra grandissima gioia, abbiamo dato alla luce (insieme alla mamma naturalmente!) una femminuccia che ha pianto quasi immediatamente, ancor prima che tagliassimo quel cordone ombelicale che pochi minuti prima procedeva minaccioso attraverso il canale del parto.


L’ilarita’ si e’ diffusa immediatamente nella sala “piccola”: Apophie era alle stelle; io ero davvero rilassato; le strumentiste ridevano e scherzavano su tutto. L’unica che ha dovuto attendere un po’ per condividere la nostra gioia e’ stata la mamma, in quanto in quel momento dormiva saporitamente.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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