domenica 26 novembre 2017

Erano le 22 quando siamo usciti di sala

Delia e’ arrivata ieri sera,di sabato, alle 18.
Era stata una giornata tremenda perche’ abbiamo voluto operare il piu’ possibile sfruttando la presenza degli ortopedici.
La donna era bellissima ed assolutamente tenera, di quella tenerezza che a volte scorgo ed avverto nella gente povera che ha studiato poco, sa di non sapere e si affida completamente a te quasi divinizzandoti ed esagerando le tue competenze.
Aveva un dolore fortissimo nella zona appendicolare e non andava di corpo da giorni, ma l’emocromo non era suggestivo di appendicite.
Aveva una lunga cicatrice addominale ed il segno di un pregresso drenaggio.
Le ho chiesto di cosa fosse stata operata ma la poveretta non sapeva molto…mi ha detto che qualcosa non era andato bene dopo il parto del suo primogenito, cinque anni prima, e che l’avevano portata in sala.
Non era al corrente di altro!
L’eco dimostrava anse intestinali molto dilatate, come in una occlusione intestinale.
Quando le ho proposto l’intervento, la donna ha tentato di rifiutare, non per mancanza di fiducia nei miei confronti, ma perche’ avrebbe voluto andare a casa a prendere il suo secondogenito di appena un anno. Lo voleva avere con se’ in ospedale per poterlo nutrire.
Mi sembrava uno sbaglio posticipare l’intervento, ma non la volevo contraddire. So che un papa’ a casa non sa prendersi cura di un bimbo che ancora succhia al seno.
Comprendevo che fosse interiormente divisa, pur sentendo molto dolore, e non intendevo farla stare peggio.


Quando gia’ le avevo detto di tornare l’indomani mattina presto e di restare digiuna per l’intervento che avrei fatto subito, nonostante oggi fosse domenica, Delia ha cambiato idea, pensando che non avrebbe avuti i soldi per pagare il matatu verso casa e poi di nuovo verso Chaaria.
Si e’ abbandonata completamente a me ed ha detto che non avrebbe opposto la mia decisione di operarla subito.
In sala, mentre l’anestesista la intubava, ha desiderato che le tenessi la mano finche’ avesse perso conoscenza nel sonno: questi sono gli aspetti piu’ umani della chirurgia, quelli che ti parlano della paura dei pazienti, della loro ansia e della loro solitudine in un momento tanto delicato della loro vita.
Avevo sperato in un intervento semplice, con qualche aderenza da sbrigliare ed un’appendice facile da togliere…invece mi sono trovato davanti un quadro del tutto inquietante.
Le aderenze c’erano, eccome!!!
Erano dovunque, dal digiuno alla valvola ileocecale. La matassa del tenue era cosi’ complicata ed attorcigliata che risultava estremamente difficoltoso sia separare le anse che capire il decorso dell’intestino. Pareva di essere in un labirinto.
Abbiamo lavoratro con pazienza, tenuti su piu’ dalla tensione emotiva che dalla forza fisica; abbiamo sbrigliato con pazienza e prudenza.
Ci siamo accorti che l’appendice era innocente e quindi l’abbiamo lasciata in pace.
Siamo pero’ arrivati ad un segmento di tenue attaccato praticamente a tutto: parete addominale, utero, peritoneo.
Abbiamo tentato di essere attentissimi, ma ad un certo punto e’ avvenuto quello che temevamo: si e’ bucata un’ansa ed il liquido ileale ha iniziato a defluire in peritoneo.
La tensione per un attimo e’ salita alle stelle, aggravata anche dal fatto che l’anestesista continuava a chiedermi sangue ed io continuavo a ripetergli che l’emoteca era completamente vuota.
Ho dovuto prendere la mia decisione in fretta; ho infatti compreso che la matassa dove si era verificata la perforazione non l’avrei mai srotolata senza causare nuove lacerazioni e maggiori problemi.
Abbiamo quindi optato per un’ampia resezione ileale di circa 40 cm, con anastomosi termino terminale.
Abbiamo lavorato all’unisono, con Makena che mi aiutava come un vero chirurgo.
Siamo entrati il sala alle 18.30 e ne siamo usciti alle 22,30, stanchi, affamati e fradici di sudore (oggi infatti il condizionatore in sala non funziona).
La cosa che mi da’ una grande gioia e’ il fatto che stamattina Delia e’ viva ed e’ stabile.
Quando l’ho visitata, lei mi ha stretto di nuovo la mano e mi ha chiesto di abbassarmi vicino alla sua faccia. Poi, con voce fragile mi ha chiesto: “Dov’e’ Dio in tutto questo?”
Io le ho risposto la prima cosa che mi e’ venuta in mente: “Dio c’e’ e ti vuole bene. Lui ha voluto che tu approdassi di sabato sera in un ospedale dove c’era un medico disponibile e pronto a operarti di urgenza nel fine settimana. Conosco tanti posti in cui forse il chirurgo lo avresti visto il lunedi’ seguente, avresti dovuto pagare un sacco di soldi per i suoi servizi…e magari sarebbe stato troppo tardi”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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