sabato 30 dicembre 2017

A Chaaria a volte due + due non fa quattro

Visito Kanana verso le 11 di mattina. Ha una gravidanza prolungata.
Noi medici diciamo che ha una post-maturita’ del feto.
Lei e’ sicura dell’ultima mestruazione. 
Faccio l’eco e confermo la presenza di segni di pericolo: liquido un po’ ridotto, grosse calcificazioni sulla placenta. 
L’eta’ gestazionale sembra di cica 43 settimane: bisogna agire subito, perche’ a questo stadio il bambino potrebbe morire in utero ad ogni momento.
Pensiamo alle possibilita’ di fronte a noi: il feto non sembra enorme.
Il canale del parto sembra adeguato. La mamma non vorrebbe un cesareo in quanto si tratta di un primo figlio e la cicatrice potrebbe obbligarla a ridurre il numero di gravidanze successive.
Io mi trovo in pieno accordo e decidiamo per un parto medico, inducendo le contrazioni con oxitocina: la dose e’ corretta, il follow up senza problemi. 




Il battito rimane buono costantemente man mano che le doglie si instaurano ed aumentano in intesita’ e durata.
L’induzione procede ottimamente come tempi: siamo in linea con il grafico del partogramma e non abbiamo segni di distress fetale. Ogni tanto sento Kanana urlare di dolore,  ma non sono preoccupato: Judith continua a ripetermi: “good contractions. No problems”.
Il bimbo nasce in tempi record. 
Alle 5.30 pm gia’ stiamo aspirando le secrezioni dal naso del piccolino: e’ un maschio, piange forte, respira bene (con un parolone di quelli che piacciono ai medici, scriviamo nella sua cartella che l’Apgar e’ di 10, cioe’ perfetto).
La mamma e’ entusiasta: ci chiama tutti e ci vuole abbracciare anche se si trova ancora sulla barella. Sorride ogni volta che le passo vicino. Io tiro un sospiro di sollievo e mi apparto nuovamente nel mio studio dove riprendo l’ambulatorio.
Passano pero’ solo 45 minuti che vengo nuovamente chiamato con urgenza in sala parto. Il piccolo di Kanana inspiegabilmente ha sviluppato un forte distress repiratorio: ha fame d’aria ed e’ tutto cianotico.
Mettiamo subito ossigeno attraverso una cannula nasale, ed iniziamo a procurare tutti i farmaci a nostra disposizione per la rianimazione neonatale. 
Aspiriamo meconio dalle sue narici, ma dopo un po’ ci rendiamo conto che il piccolo ha ematemesi (cioe’ vomita sangue). Cosa e’ successo? E’ inspiegabile! Io mi sento disfatto e mi sento in colpa: sara’ stata colpa dell’oxitocina? Eppure la dose era corretta ed i tempi di somministrazione adeguati. Anche l’indicazione era da protocollo, visto che non c’erano controindicazioni al parto naturale.
Continuiamo a rianimare ed alterniamo momenti di gioia in cui il piccolo torna a piangere forte, ad altri di sconforto, quando per esempio ci rendiamo conto che la cianosi ritorna appena l’ossigeno viene sospeso per un attimo.
Lottiamo per il neonato fino alle 11.30 di sera. A questo punto ci sembra di avere esaurito anche le riserve mentali e ci sentiamo inutili. 
Quando vado a letto verso mezzanotte, lui e’ in incubatrice; ha la cannula per l’ossigeno in una narice, una vena attraverso cui riceve terapie varie ed infusioni. 
Piange adeguatamente e Wambeti mi dice di andare pure a riposare, mentre lei avrebbe seguito il caso.
Pinuccia ed alcuni Fratelli sono con me: ci fermiamo un attimo a pregare per il piccolino. Poi lo abbandoniamo alle mani di Dio.
Stamane, prima della preghiera in cappella, decido di passare a salutare mamma e pargoletto: invece, con un acuto dolore che mi ha attanagliato la gola, ho visto l’incubatrice vuota ed una piccola scatola di cartone sul tavolo li’ vicino. 
Apro il contenitore con circospezione: purtroppo era proprio vero. Il bimbo era li’ dentro senza vita. 
Quasi non mi sono accorto che la madre e’ in piedi alle mie spalle, bellissima e seria, senza una lacrima. Ha guardato il corpicino con me. Io non ho trovato parole. Ho abbassato gli occhi con imbarazzo... l’unico gesto che automaticamente sono riuscito a fare e’
stata una carezza sulla guancia della giovane disperata. Lei non si e’ scostata. Ha ricevuto il mio segno ed ha posto il palmo della sua mano sulla mia: io ho continuato a non guardarla e a non dire niente. 
Poi lei e’ uscita dalla nursery ed e’ tornata a letto.
Rimango profondamente confuso mentre mi avvio verso la chiesa e cerco di offrire anche questo nuovo episodio al Signore, l’unico che sa il perche’ di certi avvenimenti e certe sconfitte.

Fr. Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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