martedì 3 aprile 2018

I miracoli di Sign

Amos ha 7 anni ed e’ cosi’ piccolo da dimostrarne 5.
E’ impolverato e sporco, cosi’ come la mamma che non ha un solo dente sano.
Sono arrivati alle 8 di sera e mi han trovato ancora alle prese conl’ambulatorio.
Vengono dal Tharaka, e sono poveri... ragione fondamentale per una immediata intesa psicologica non verbale tra di noi.
Chiedo alla madre di dove sono, e mi dicono che provengono da Kathangacine. Gia’ la parola suscita in me un rispetto incommensurabile: 80 chilometri di sterrato che la donna si e’ fatta spendendo un sacco di soldi per essere trasportata fin qui a cavallo di una motocicletta cinese.
Ha viaggiato con Amos legato alla schiena in un pareo.
“Ad ogni asperita’ del terreno si metteva a strillare di dolore!”, mi ha confidato con le lacrime agli occhi.
Visito rapidamente il piccolo, e non mi ci vuole molta scienza per comprendere che il femore sinistro e’ spezzato in due. La madre insiste che si tratta invece del ginocchio, e non della coscia.


Continuiamo a dissentire per un po’, ed alla fine devo ricorrere ad un metodo un po’ rude per convincerla: le metto una mano su quello che io penso sia il focolaio di frattura; poi premo la sua mano con la destra, mentre la mia sinistra solleva lentamente il piedino di Amos, che strilla in un attimo di dolore intensissimo. 
La donna ritrae l’arto con una smorfia di orrore; ha avvertito lo scroscio dei monconi ossei che andavano in collisione.
La convinco che Amos deve essere operato e che il gesso non e’ la soluzione migliore.
La donna e’ restia perche’ non ha soldi, ma io le ho assicurato che con SIGN, ormai non ci sono piu’ problemi economici e che gli impianti sono gratuiti.
Le ho anche detto che domattina opereremo il bimbo e che dopodomani lo vedra’ gia’ camminare.
Con tutta probabilita’ torneranno a casa in quattro giorni.
Questi sono i veri miracoli che SIGN ha reso possibili anche a Chaaria.
Quella mamma esausta e devastata a questo punto e’ riuscita anche a regalarmi un timido sorriso.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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