domenica 6 maggio 2018

Pochi riescono a capire

Ci sono giorni tremendi in cui inizi al mattino presto alle 5.30 per una chiamata notturna in maternità. Quando finisci con l’emergenza è ormai tempo di andare a pregare: ti rechi quindi in cappella per le lodi mattutine e per la Messa.
Immediatamente dopo la celebrazione eucaristica trangugi un po’ di caffelatte alla velocità della luce perchè devi preparare la lezione delle 8 per gli infermieri. 
Ti precipiti quindi in ospedale, allestisci la stanza con il proiettore ed il computer, e ti metti a rileggere la tua presentazione prima che arrivi il personale.
Esponi l’argomento che ti sei preparato mettendoci l’anima; quando finisci però, ti trovi immediatamente sommerso da infinite richieste: bisogna preparare le richieste delle biopsie per mandarle a Meru; occorre fare ora il prelievo per il citologico prima che parta la macchina per le spese.
Nel frattempo iniziano le operazioni, e la tua vita scorre rapida, mentre ti senti come un grillo affannato che deve continuamente saltare dalla sala operatoria, all’ambulatorio, al punto nascita.
Termini un intervento pesante e te ne vieni fuori svuotato e stanco; non c’è tempo però per riposare e chiami il primo paziente esterno per l’ecografia, e lui, invece di spiegarti i suoi problemi di salute, si mette a sciorinare un sacco di recriminazioni perchè viene da lontanissimo ed ha aspettato troppo. 
Al che, siccome sei stanco ed un po’ nervoso, ti scappa una parola di troppo e gli dici: “già, tu eri qui ad aspettare ed io invece ho dormito tutta la mattina!”


Immediatamente dopo questa frase, il senso di colpa ti chiude lo stomaco come una morsa.
E la vita continua così, saltando dalla sala all’attività clinica e riesci a ritagliarti sì e no 15 minuti per il pranzo.
Alla sera finisci l’ambulatorio, il reparto e gli interventi verso le 20, appena in tempo per andare a pregare il vespro con i Fratelli; poi, mentre ancora stai lavando i piatti dopo cena, ti chiamano in ospedale perchè c’è un raschiamento uterino urgente.
In sè è una procedura semplice e breve, ma alla sera e di notte non hai l’anestesista, e quindi i livelli d’ansia sono nuovamente alle stelle.
Dopo la revisione della cavità uterina devi ancora fare il controgiro serale in reparto, quando ormai fai fatica a parlare, hai la mente asfaltata dalla fatica e trascini le gambe: guardi le glicemie dei diabetici; aggiusti le dosi di insulina; dai uno sguardo ai casi acuti ed ai nuovi ricoveri; ti sinceri che gli operati vadano bene.
Sono passate le 22 quando auguri la buona notte agli infermieri in turno e dici loro: “speriamo di non rivederci stanotte per un’emergenza!”
Sei già sulla porta per lasciare il reparto quando ti approccia una donna poco cortese che con toni un po’ arroganti ti dice che lei è stufa di aspettare e che è stata in ospedale 3 giorni senza essere operata.
Tenti di stare calmo e le fai presente che stiamo facendo del nostro meglio e che anche oggi gli interventi sono stati 10.
Lei non ne vuol sapere e continua ad infierire; non c’è null’altro da fare che capitolare: “va bene, vedremo di metterti nella lista di domani, anche se gli operandi sono già 10 e non si sa mai cosa succederà con le emergenze”.
Vai a letto triste. 
Ti sei alzato alle 5 per non lasciar morire una donna in sala parto, e poi non hai più avuto un singolo momento per te. Hai servito decine e decine di persone: alla fine della giornata però non ricevi un grazie, ma ancora lamentazioni e recriminazioni.
Nessuno (o quasi) capisce il tuo ritmo di lavoro e lo sforzo di dedizione che ci metti sette giorni alla settimana, di giorno e di notte. Tutti (o quasi) sono concentrati sul loro piccolo punto di vista e sul loro angusto angolo visuale.
Normalmente la gente non ha il quadro generale della situazione e poco le interessa della tua stanchezza.
Fortunatamente comunque la fede ti dice che Dio vede e che “neppure un bicchiere d’acqua dato per amore sarà dimenticato”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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