giovedì 5 luglio 2018

Lillian e Chynthia

Ieri pomeriggio e’ arrivata Lillian in codizioni estreme.
E’ rigida quanto un pezzo di legno. La schiena e’ inarcata come un semicerchio; i quattro arti irrigiditi in estensione, ed i denti in continuo movimento a causa di un bruxismo inquietante.
La febbre e’ altissima... oltre i 40.
Ha diarrea profusa, ed il torace congesto in modo tremendo.
E’ stato difficilissimo tenerla in vita, ingaggiando un’autentica lotta contro il tempo: aspirare le secrezioni dalla bocca e dal naso prima che soffochi; praticare farmaci per ‘scaricarle i polmoni’ ed aiutarla a respirare; iniettare medicine per il suo cuore stanco, per abbassare la febbre che la rende sempre piu’ riarsa, e per fermare quel flusso acquoso di feci gialle che continuano a disidratarla ulteriormente.
Lillian e’ piccolina. Ha 5 anni e pesa all’incirca 15 chilogrammi. E’ in coma profondo, e non avverte dolore neppure quando la si stimola con dei pizzicotti ‘potenti’ sui muscoli delle spalle o sul capezzolo.
Cio’ che capita invece in risposta a tali manovre cliniche e’ che si scatenano degli attacchi epilettici: dapprima iniziano movimenti incontrollati della bocca e dell’occhio sinistro; poi questa ‘danza tetra’ si estende agli arti e li agita con tremori via via piu’ frequenti che finiscono quindi in una estensione forzata; infine tutto il corpo diventa facile preda di questo flusso malefico che lo scuote e lo contrae. 


La schiena si inarca all’indietro; una schiuma biancastra fa capolino dalle labbra serrate e dalle narici che si muovono disperatamente per far giungere un po’ di ossigeno ai polmoni.
Bisogna agire in fretta con l’aspiratore, prima che Lillian anneghi nelle sue stesse secrezioni.
A causa di tali contrazioni muscolari inconsulte reperire un accesso venoso e’ risultato un’impresa quasi impossibile. Ci han provato tutti, ed ora Lillian e’ ridotta ad un colabrodo... ma ancora non abbiamo una via disponibile per praticarle i farmaci che potrebbero salvarle la vita.
Dopo quasi un’ora di tentativi e di ‘ sevizie’ sulle povere vene della piccola, Jesse non smentisce la sua fama di essere il migliore: incannula la vena giugulare, attarverso cui ora possiamo iniziare a farle qualcosa.
La febbre si rivela particolarmente testarda e non vuole saperne di scendere. Abbiamo usato supposte di paracetamolo, ma la diarrea ha probabilmente lavato via il prodotto prima che potesse essere assorbito. Abbiamo somministrato farmaci in muscolo; non ne vediamo
pero’ ancora il beneficio.
Lillian e’ completamente nuda e la copriamo di spugne bagnate con acqua tiepida, per favorire la termodispersione.
Nel frattempo l’esame per la malaria ci rivela che in effetti siamo nuovamente di fronte al killer dei nostri bambini. 
Il test e’ positivo per alta densita’ di parassiti.
Fortunatamente abbiamo un accesso venoso e possiamo affidare la malata al potere del chinino, che per ora non sembra risentire di alcuna limitazione, per essendo un farmaco piu’ vecchio di me.
Il torace migliora lentamente sia grazie al nostro costante ‘aspirare’, sia grazie al cortisone, agli antibiotici ed ai diuretici.
Il coma persiste, ed e’ agitato di tanto in tanto da convulsioni che scuotono il corpo esile di Lillian. Dobbiamo praticare dei barbiturici, e sperare che la temperatura lentamente si riduca.
Pensiamo anche ad una meningite, e le pratichiamo, non senza paure, la puntura lombare: ma il liquor e’ limpido ed assolutamente normale.
E’ la malaria che causa tutto questo disastro, e la rigidita’ e’ probabilmente in parte legata alla febbre ed in parte allo stato comiziale in cui versa la piccola.
L’ho lasciata alle cure di Penina verso le 23, perche’ e’ inutile fare gli eroi: nessuno puo’ lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro. Ne va di mezzo non solo l’equilibrio psicofisico, ma anche il livello di servizio ai malati, che scadrebbe rapidamente nel nervosismo e nella superficialita’.
“Non sono sicuro di trovarla domattina”... e’ il mio ultimo farfugliamento mentale, prima di cadere tra le braccia di Morfeo.
Scendo in ospedale immediatamente dopo la Messa mattutina.
Lillian c’e’ ancora. E’ tuttora incosciente, ma adesso pare responsiva agli stimoli dolorifici: “il coma sembra piu’ leggero”, penso con una punta di sollievo.
La mamma e’ seduta vicino a lei e non mi fa domande; da’ l’impressione di essere completamente apatica o atavicamente fatalista.
La rigidita’ e’ ancora presente sul corpicino della mia piccola malata, ma pare ridotta. Dall’una di stanotte non ha piu’ avuto crisi comiziali.
“Speriamo di farcela”.
Purtroppo vicino a lei Cynthia, un’altra bimba di appena due anni, sembra non potercela fare: e’ entrata da poco in ospedale. Anche lei e’ in coma profondo; e pure lei ha un test positivo per il plasmodio... ma ormai il suo respiro assomiglia a quello dei morenti pochi minuti prima di rispondere alla chiamata del Creatore. Lei poi rigurgita sangue, e questo e’ sempre un segno terribile nei bambini che hanno una malaria complicata.
“Non ne ho mai salvato uno, quando iniziano con questo vomito color fondo di caffe’”... ma bisogna tentare di tutto prima di arrenderci.
Mi unisco allo sforzo delle infermiere nelle pratiche rianimatorie, mentre la madre di Cynthia reagisce al dolore in modo diametralmente opposto a quello della mamma di Lillian.
E’ seduta per terra, e tiene la sua piccolina per mano. Intona una cantilena continua e ripetitiva, in cui parla direttamente a Gesu’, chiedendogli il miracolo... gli domanda un segno della sua onnipotenza e lo prega di prendere il controllo della situazione e di ridarle la sua bimba.
Noi rispettiamo questa angoscia e la lasciamo fare. Non ci disturbano i suoi lamenti, ne’ il fatto di doverla scavalcare ogni volta che ci giriamo attorno al letto di Cynhia.
Il nostro compito e’ di agire. Il suo probabilmente solo quello di implorare Dio... ed e’ giusto che possa farlo!
Mentre prescrivo per la piccola morente tutti i farmaci che il mio povero cervello riesce a ricordare, sul muro della stanza scorgo una pigra zanzara che si sposta a volo radente nei pressi del letto di Lillian. 
Alzo d’istinto la mano e la spappolo sul muro. L’insetto letteralmente scoppia sotto il peso del mio schiaffone. Sul mio palmo vedo ora una goccia di sangue che mi fa intuire come qualcun altro sia stato probabilmente infettato da questo insetto ignaro del male che fa a tanta umanita’ sofferente.
Poi mi assale un’altra suggestione: “e’ assolutamente inutile uccidere una zanzara... ce ne saranno sempre milioni per continuare il ciclo perverso della malaria”.
Quindi rivado con la mente a quei volontari che non vogliono assumere la profilassi antimalarica, adducendo che i farmaci hanno effetti collaterali; oppure che la malaria presa in tempo si puo’ curare senza problemi; oppure ancora che i casi di malaria grave sono uno su non so quanti.
Ma poi guardo Lillian e Cynthia che ancora lottano tra la vita e la morte, e mi viene un brivido... poi, quasi senza accorgermene, biascico a mezza voce: “Si’, ma se quell’uno su mille fossi proprio tu, non ti dispiacerebbe di non aver assunto la profilassi!”
Vedo Penina trasalire e chiedermi: “tutto bene, doctor?”
“O si’; e’ stato solo un pensiero ad alta voce... sai, alla mia eta’ i segni dell’arteriosclerosi cominciano a farsi sentire”.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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