martedì 16 ottobre 2018

L'esame

Era il giugno 1976, ed io sedevo su un banco dell’aula-studio dell’Istituto Salesiano di Lombriasco (To). Ero terrorizzato, mentre aspettavo che Don Franco leggesse il titolo del tema per il nostro esame di terza media.
Poi la sorpresa: era veramente facile, e oggi direi anche scontato. “Che cosa voglio fare da grande?”
Ricordo con grande vivacità che mi sono messo al lavoro immediatamente, ed ho svolto il mio componimento sviluppando l’idea che sarei diventato un medico missionario.
Le parole scorrevano libere ed io mi sentivo sollevato… l’esame sarebbe iniziato bene: ricordo di aver scritto che sarei andato in Burundi… non so neppure perché. 
Certo non avevo conoscenze geografiche sufficienti per capire di quel che stavo parlando. La mia immaginazione mi portava però a pensare ad un piccolo villaggio, in cui io, medico bianco, vivevo in una capanna del tutto simile a quelle della gente a cui mi ero totalmente votato. 
La mia casa aveva il tetto di paglia, come tutte le altre, e si affacciava su un grande spiazzo di terra bianchissima, come le spiagge dell’Africa Orientale.


Immaginavo code interminabili di malati, di donne con bambini piccoli in braccio, di uomini piagati.
Sognavo che li avrei curati tutti, ed avrei saputo dire di sì sempre, senza cadere nella stanchezza e nel nervosismo. Mi auguravo una dedizione totale ed incondizionata, ventiquattro ore al giorno.
Pensavo che avrei voluto fare qualsiasi cosa per loro: se erano sporchi, li avrei voluti lavare; se avevano ferite, li avrei medicati o suturati; se non avessero avuto da mangiare, avrei comprato io il cibo. Solo a questo punto, dopo aver soddisfatto tutte queste necessità basilari, avrei messo a loro disposizione le mie conoscenze scientifiche di medico specializzato in Medicina Tropicale.
Immaginavo un caldo torrido ed una foresta verdissima a fare da greca al nostro villaggio. Alla sera mi pensavo stanco in un semplice giaciglio a prendere sonno senza problemi, perché avevo dato proprio tutto per i poveri.
Non so se posso dirlo, ma credo che questo sogno fosse già, in germe, un segno della mia vocazione, un bagliore di una chiamata che mi è rimasta nascosta e nebulosa ancora per molti anni… certamente comunque è stato un seme che non è morto e che poi a Chaaria ha trovato modo di germogliare e di crescere, seppure in condizioni leggermente diverse e forse meno poetiche.
Sono in Kenya e non in Burundi; sono in un ospedale e non in una capanna… ma tante cose si sono perfettamente avverate.
La coda di gente che ti assale dal mattino a notte avanzata è certamente una realtà quotidiana, che diventa anche un test per la mia pazienza e la mia costanza: a volte alla sera sono così stanco che non riesco neanche più a parlare… Come oggi per esempio, quando la prima emergenza è arrivata alle 6 di mattina e l’ultimo paziente è stato visto alle ore 23. In questo momento mi sembra che al posto dei neuroni, io abbia solo marmellata, e che il mio cervello proprio non riesca a rimanere in moto. Eppure lo so che potrei essere chiamato nuovamente fra due ore, nel cuore della notte.
Anche ora a Chaaria mi addormento subito, nella certezza che più di così non posso dare.
Però non dormo in una capanna, e so che così non potrebbe essere: un medico, al di là della componente idillica, non può lavorare con le sue mani soltanto. Ha bisogno di strumenti anche costosi, di materiale diagnostico, di sale operatorie, di laboratorio analisi.
Essere in una capanna insieme alla gente potrebbe certamente essere più poetico, ma non è detto che poi corrisponda a ciò di cui la gente ha più bisogno.
Come nel mio sogno iniziale, anche ora comunque veramente cerco di dare la massima attenzione ai bisogni primari dei pazienti: non mi considero un medico altezzoso. Se c’è bisogno, mi va benissimo fare lo stesso lavoro delle signore della pulizia o delle OSS: che senso avrebbe infatti dare l’antibiotico più costoso, o fare l’intervento più difficile, se poi il malato dovesse languire nei suoi escrementi o non avesse da mangiare?
Ringrazio Dio di Chaaria, di tutte le persone che Lui ci manda e che in qualche modo possiamo aiutare, portando a compimento quell’ideale che è germogliato nel mio cuore sui banchi di scuola all’esame di terza media.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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