giovedì 21 marzo 2019

Dio perdona sempre... la natura invece no.

Jeny si presenta a Chaaria con un bimbo morto che le pende tra le gambe.Ha tentato a casa un parto podalico; il bambino però si è inchiodato con la testa dentro, perchè il bacino osseo della madre è troppo stretto, ed è morto asfissiato.
Il nostro ingrato compito è quindi quello di estrarre il corpo senza vita: è una manovra difficilissima, e corriamo il rischio di decapitare il neonato nel tentativo di darlo alla luce. Sono momenti di tensione estrema, in cui mi tremano le gambe e prego Dio di aiutarmi.
La cosa che mi sconvolge di più è vedere sull’addome della paziente una cicatrice da pregresso cesareo: questa donna sapeva di essere a rischio perchè già in precedenza non era riuscita a partorire; le era stato spiegato quanto rischioso sia tentare il parto a domicilio senza personale specializzato ad assisterla, dopo un pregresso cesareo...
nonostante questo ha voluto partorire a casa da sola!
Non capirò mai certi comportamenti!


Alla fine il bambino esce, ed insieme a lui la placenta. Tiriamo un sospiro di sollievo, pensando di aver risolto il problema, e ci dedichiamo agli altri malati che affollano l’ospedale.
Il caos di Chaaria ci assorbe in altre situazioni, e quasi ci dimentichiamo del caso, che per noi è risolto ed archiviato.
Poi però l’ostetrica mi chiama con urgenza, perchè la donna ha distensione addominale, pressione imprendibile, ed è sudata fredda.
Faccio l’ecografia e vedo che c’è un’ingente quantità di sangue in addome: è quindi effettivamente avvenuto quello che tutti temevamo.
Nessuno infatti sa per quante ore la mamma abbia travagliato a casa prima di riuscire a partorire parte del corpo di suo figlio.
Sicuramente essa aveva già una rottura d’utero quando abbiamo estratto il feto morto.
Programmiamo una laparatomia d’urgenza, ma non riusciamo assolutamente a trovare la vena.
Alla fine il miracolo lo fa Jesse ed incannula la giugulare.
Corriamo in sala con la paziente ormai fredda e collassata. Non abbiamo sangue per lei, e ne prendiamo in prestito una sacca dal paziente che deve fare la prostatectomia oggi.
Iniziamo l’intervento e la trasfusione nello stesso momento.
Apriamo l’addome alla velocità della luce e troviamo un’enorme quantità di sangue non appena incidiamo la tenue pellicola del peritoneo parietale; lo aspiriamo e ci rendiamo conto del problema: uno squarcio enorme sul legamento largo di sinistra. 
L’utero è completamente irrecuperabile e dobbiamo procedere ad un’isterectomia d’urgenza: anche l’intestino è tutto infarcito di sangue, ma fortunatamente non ci sono perforazioni.
Dopo l’intervento la mamma riprende coscienza anche se le sue condizioni sono critiche.
Manteniamo acceso il lumino della speranza fino al pomeriggio, quando le condizioni di Jeny precipitano improvvisamente. Fortunatamente non siamo in sala in quel momento ed accorriamo per la rianimazione.
Facciamo tutto quello che possiamo, ma la mamma ci sfugge dalle mani e se ne va in Paradiso a raggiungere il suo figlioletto. Siamo senza parole.
Com’è brutta l’ignoranza!
Il cesareo lo aveva fatto da noi due anni fa. Le avevamo detto che non avrebbe potuto partorire a motivo di una disproporzione cefalopelvica, ma lei non ha capito o non ha voluto darci retta. Ha probabilmente travagliato molte ore a casa, causando la rottura d’utero ed insieme la morte del figlio atteso per nove mesi. 
Tristemente penso che è riuscita anche a commettere suicidio con quella sua decisione veramente poco saggia, ma per me è impossibile conoscere le sue motivazioni e non la devo giudicare.
Mi tornano in mente le parole di un mio vecchio amico morto di AIDS, quando mi diceva che “Dio perdona sempre, mentre la natura non sempre lo fa”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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