martedì 21 maggio 2019

Drammi del nostro ospedale

Alle 19.30 metto il gesso ad un paziente che avevamo suturato dopo un brutto taglio al piede che aveva segato pure tendini ed ossa.
Vengo chiamato in sala parto per una emorragia post partum. La donna ha appena partorito. Il sanguinamento è profuso ma l’utero è ben contratto. Penso quindi ad una lacerazione cervicale da suturare ma la portio uterina non presenta danni importanti. Il sangue viene da dentro l’utero stesso.
Alla visita estraggo alcuni frammenti di membrane e penso che questa sia la causa dell’emorragia. Mi appresto quindi a preparare una revisione uterina urgente: chiamo il ginecologo, avviso Jesse e dico a Kanana di preparare il campo. 
La donna continua a ripeterci di essere molto assetata, segno che la sua volemia è bassa. L’emoglobina è inferiore ai 4 grammi.
Mentre Massimo, Kanana e Jesse si occupano del raschiamento, in laboratorio io seguo la determinazione del gruppo e delle prove crociate. Di sangue in emoteca ce n’è una sacca sola, e certo questa non basterà. 


La mamma è di gruppo 0 positivo, e c’è solo Fr Giancarlo a cui posso chiedere aiuto con una donazione urgente. Io infatti ho un gruppo differente.
Dopo il raschiamento comunque il sanguinamento continua ed è giocoforza per Massimo fare un tamponamento endouterino con garza.
Nel frattempo facciamo dosi importanti di oxitocina per aumentare la contrazione uterina; infondiamo liquidi alla donna per tenere su la pressione, le pratichiamo acido tranexamico e vitamina K per migliorare la coagulazione.
Il sangue dal laboratorio arriva a tempo di record, e trasfondiamo velocemente due sacche. Le condizioni della donna deteriorano però velocemente, ed in una modalità che non collima con la quantità di sangue che vedo sul pavimento e sul lettino da parto. 
Non credo di vedere più di un litro e mezzo di perdite esterne, ed inoltre stiamo trasfondendo; la donna però sviluppa “gasping”, la pressione arteriosa precipita e diventa imprendibile, e la saturazione è di 66% nonostante l’ossigeno che le somministriamo a go go.
L’utero si contrae bene con la terapia, ma le perdite ematiche, seppur ridotte al minimo, non si fermano del tutto.
Con sorpresa guardiamo le braccia della malata e notiamo che i buchi lasciati dalle cannule nei posti in cui invano cercavamo una vena prima di reperire finalmente la giugulare, continuano a sanguinare mezz’ora dopo il nostro tentativo fallito di assicurarci un accesso.
Il quadro clinico sembra diventare più chiaro: l’emorragia post-partum non è il solo evento contro cui stiamo lottando. 
Molto probabilmente si è instaurata una CID (coagulazione intravascolare disseminata). Il sanguinamente in questa donna è verosimilmente ovunque, e non solo dal canale del parto: ecco perchè le perdite esterne non collimano con le sue condizioni generali estremamente scadenti.
La CID è una condizione difficilissima da controllare anche in Italia, e certamente richiede il trasporto in unità di terapia intensiva.
Comunque non ci arrendiamo e continuiamo la rianimazione; ma, proprio quando ci pare che il respiro sia più regolare, e la saturazione raggiunge in effetti il 97%, la mamma cessa di respirare.
Ci era anche passato per la testa di poter tentare un’ isterectomia d’urgenza, ma la donna non ce ne ha dato il tempo; inoltre, tentare un intervento in quelle condizioni e senza una rianimazione, sarebbe stato forse temerario.
Sto ascoltando i polmoni della donna mentre lei esala l’ultimo respiro; la sto guardando negli occhi spenti. 
La lunghezza dello stetoscopio mi obbliga ad una distanza ravvicinata da quel volto sfinito. Vedo in faccia la morte mentre si impadronisce di quella mamma, la avvolge e la porta via senza che lei abbia la forza nemmeno di un ultimo respirone forte. 
Semplicemente la respirazione si ferma di botto, senza un tremito del corpo, mentre ancora il fonendoscopio è sul torace. Lo sposto un attimino e lo dirigo sul cuore, ma anch’esso si è fermato per sempre.
Mi sento come se avessi tentato di sostenere la povera paziente per una mano mentre stava precipitando in un burrone, mentre il sudore delle nostre mani l’aveva fatta scivolare via nel vuoto sotto i miei occhi sbarrati.
Ci è scappata dalle mani; l’abbiamo vista precipitare e ci siamo sentiti impotenti.
Sono le 22.30. Il nostro umore è terreo. La donna giace esanime sulla barella della sala parto da cui non si era più mossa sin dal momento in cui alle ore 19 aveva dato alla luce il suo sesto figlio, che ora ci guarda e si succhia il dito, completamente ignaro del fatto che non vedrà mai la sua mamma e mai si allatterà al suo seno.
Il libro di Giobbe dice. “Il Signore ha dato; il Signore ha tolto... sia benedetto il nome del Signore”.
In questo momento però non riesco a pregare; non mi rimane che abbassare il capo ed accettare l’ineluttabile, soffocando l’inevitabile domanda “perchè?” a cui comunque non troverei una risposta.
E’ successo! Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ma siamo stati sconfitti! Ha vinto la morte!
Massimo mi ricorda che la mortalità peri-partum è un dato di fatto da accettare, e che non è zero neppure in Europa; questo dato numerico però non mi aiuta molto a sollevare il macigno che mi sento sul cuore.
La defunta viene da un villaggio poverissimo del Tharaka. Mi aspetto che l’orfanello starà con noi qui in ospedale per un po’ di tempo, ma per ora non posso sapere niente perchè il marito non ha un numero di telefono. 
Bisognerà aspettare che venga a trovare la moglie per dargli la terribile notizia che certo non si aspetta: ha un altro bambino, ma ha perso la sua dolce metà.
Abbiamo salvato molte vite oggi, ma quest’ultima vicenda è una coltre di dolore che mi impedisce di gioire per le persone che abbiamo aiutato. La tragedia a cui abbiamo assistito manda nell’oblio tutti gli altri successi della giornata.
Sono le 23 e sono seduto nel mio studio con Fr Giancarlo: sembra che entrambi non vogliamo andare a letto per timore di non prendere sonno o di avere incubi ingestibili.
“Mi dispiace, Giancarlo, che il tuo sangue sia già andato sotto terra insieme a questa povera mamma... ma certo la carità che tu le hai fatto rimane, anche se poi il risultato finale è stato così deprimente”.
“Non preoccuparti per il mio sangue. Mi dispiace molto per lei... ed anche per te che sempre porti il peso di queste morti”.
“Se facevo economia e commercio, mi sarebbe successo molto meno”.
“Già! Offriamo tutto al Signore e preghiamo per quella famiglia”.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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