lunedì 31 dicembre 2007

Kawira, la sopravvissuta

Sono le 21.30 di domenica sera. La speranza è quella di andare a letto presto, visto che pare l’ospedale sia tranquillo. Ho già consegnato il cercapersone all’infermiera e con la solita battuta umoristica le ho raccomandato di non usarlo mai di notte e di non azzardarsi a svegliarmi. Stiamo ancor ridendo quando sentiamo un vociare concitato nella veranda. Ci sono moltissimi uomini e donne e si ode il rumore della nostra barella che sta correndo velocemente. Dico tra me e me: “addio ai sogni d’oro!”. Ho però ancora speranza: forse è solo una malaria o magari un paziente psichiatrico accompagnato da molti membri della famiglia. Vedo entrare il lettino in corridoio e mi avvicino con circospezione. Vedo un fagotto di vestiti completamente insanguinati e mi rendo conto che si tratta di un caso di violenza. Mi metto i guanti e provo a rimuovere una camicia che era stata avvolta attorno alla testa del paziente come se fosse una sciarpa, forse per arrestare l’emorragia. Scopro due occhioni grandissimi che mi scrutano spaventati: mi rendo conto in una frazione di secondo di essere di fronte ad un bambino. Non si capisce se è maschio o femmina. Ha i capelli cortissimi ricoperti da uno strato di sangue coagulato. Continuo a rimuovere gli stracci che avvolgono quel corpicino e gradualmente comprendo che si tratta di una cosa terribile, di una violenza davvero inaudita, di una crudeltà quasi bestiale: ci sono ferite da “machete” ovunque... quella sul capo ha chiaramente raggiunto l’osso e si scorge la teca cranica screpolata. Poi il torace, le braccia, le mani: ci sono due dita penzolanti e quasi completamente amputate. Ma quello che più impressiona sono due gravissime lesioni sul collo: una a destra ed una a sinistra. Sono così profonde da aver praticamente lasciato i grandi vasi esposti, dando l’impressione che ormai il cranio sia attaccato al corpo solo attraverso la colonna vertebrale completamente “spelata”. Immagino la brutalità con cui quel bambino è stato colpito prima da un lato e poi, di ritorno, dall’altro. Ho voglia di urlare e di scappare: mi metto a imprecare contro chi ha potuto commettere un atto del genere e dico che quella persona va arrestata immediatamente perchè un atto così crudele non è degno di un essere umano. In realtà il mio urlo è dettato solo dalla paura e dallo scoraggiamento: non so cosa fare, né tanto meno dove iniziare. Vorrei sparire e fare finta che non fosse successo nulla. Mentre mi aggiro confuso, una donna che era rimasta silenziosa in un angolo del corridoio, mi si avvicina: porta un bimbo sulle spalle, e piangendo mi confessa che era stato suo marito, ma che aveva agito in preda ad un raptus di follia. Era infatti da anni seguito per un disturbo di tipo psichiatrico. Questa scena mi calma e mi commuove fino alle lacrime; ritorno in me stesso: non ho il diritto di giudicare. Il mio compito è solo quello di salvare una vita, se ne sono capace. Laviamo il corpo imbrattato e ci rendiamo conto che si tratta di una bambina. Chiamo Bro Joel immediatamente per il gruppo sanguigno ed iniziamo una trasfusione urgentemente. La bimba infatti è molto anemica e sta diventando confusa. Chiamo Giuseppe ad aiutarmi perchè da solo mi perdo d’animo. Cominciamo dalle suture più semplici, per poi dedicarci alla ricostruzione dei tendini e alla ingessatura delle mani: chissà se quelle povere dita penzolanti potranno riprendersi! Noi ci proviamo e poi speriamo che Dio faccia il resto. Il vero dramma lo viviamo quando ci avviciniamo alla testa. Anche Fr Lorenzo è con noi e ci sostiene con un improvvisato impianto di luci per la “room 8” dove stiamo lavorando; non siamo infatti entrati in sala operatoria. La bambina è ancora troppo sporca e contaminerebbe tutto. Deve essere caduta nel fango perchè nelle ferite non ci sono solo coaguli, ma anche tonnellate di terriccio. Iniziamo a chiudere la cute del cranio. La frattura non sembra interessare l’osso a tutto spessore, ed abbiamo la speranza che non ci sia una emorragia cerebrale, visto che la paziente è totalmente cosciente e le sue pupille reagiscono normalmente. Infine il lavoro di ricostruzione del collo: i vasi sanguigni sezionati, i muscoli, le fasce, il sottocute, la pelle. Non so neppure cosa ho fatto. E’ come se una mano dall’alto guidasse le mie mosse che erano quasi casuali, come di colui che in preda al panico si aggira qua e là e fa dei tentativi senza un piano preordinato. Eppure pian piano quel capo che sembrava essere stato “spelato via” dal resto del corpo ritorna alla sua posizione normale. Ora che la cute è di nuovo al proprio posto, la bimba sembra più bella e più alta. Abbiamo però tanta paura di una frattura della colonna e temiamo che ogni movimento possa essere fatale. Con grande circospezione la medichiamo e la mettiamo a letto con un “collare” di protezione totalmente improvvisato. Andiamo a dormire dopo le due di notte, ma gli occhi non si vogliono chiudere: davanti al mio sguardo continuano a passare immagini raccapriccianti di violenza. Come in un “flash back”, mi ritorna in mente la visita al mausoleo di Kigali, in Rwanda. Quanti bambini sono stati massacrati con il “machete”, ma non ce l’hanno fatta ed ora sono ridotti ad un cranio sfondato e senza nome nella vetrina di un museo il cui ritornello è: “genocidio: mai più”. Anche questa piccolina è una vittima di una piaga immensa: quella della violenza ingiustificata sui minori. Il mattino seguente partiamo molto presto e ci rechiamo a Meru per i raggi: il viaggio di 20 km sulla strada sterrata è difficilissimo perchè gli scossoni del terreno accidentato le provocano dolori lancinanti. Però il tutto viene ripagato dall’esito degli esami: “ non segni di frattura alla colonna cervicale, né ematomi intracranici”. Che bello! Ce l’abbiamo fatta!

La bimba si riprenderà! Anche se dovesse avere alcune dita non completamente funzionanti, almeno sarà viva.

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Durante il viaggio aveva continuamente ripetuto: “ce la farò? Ditemi che non sto morendo!” Ora potevo con tranquillità dirle che certamente potrà diventare grande e riprendere a sognare per un futuro migliore. Le chiedo allora: “Come ti chiami?” Lei mi dice che si chiama Kawira, che in Kimeru significa “grande lavoratrice”. Poi riprende subito a dirmi: “Non è il caso che facciate arrestare quell’ uomo. E’ matto e non ne può nulla. Quando guarisco, semplicemente io vado a riprendermi tutta la mia roba e poi torno da mia mamma”. “Ma cosa ci facevi in quella casa?” insisto. “Lavoravo come persona di servizio. Mi prendevo cura del loro figlio piccolo”. “Ma come mai non vai a scuola alla tua età? Ho letto che hai solo 13 anni”. “La mia famiglia è molto povera ed ho dovuto andare a lavorare per poter procurare il cibo ai miei fratellini”. “Ma se ora torni a casa, andrai a studiare visto che è praticamente gratis?”. “Non credo proprio perchè mia mamma e mio papà hanno bisogno dei soldi che procuro facendo la bambinaia a pagamento”. Questa conversazione apre per me un nuovo mondo, a volte sconosciuto quando i passano le giornate chiusi in ospedale: quanta povertà attorno a Chaaria. Solo che i poveri normalmente sono anche umiliati dalla loro condizione e tendono a non farsi vedere. E che maturità in Kawira; sembra una donna adulta e responsabile. Alla sua età ha già capito che non è il caso di infierire legalmente contro un debole mentale, e ha già fatto la scelta di sacrificarsi lei stessa per il bene dei fratellini più piccoli.

La guardo e nuovamente mi colpiscono i suoi occhioni neri che risaltano ancora di più a motivo delle garze bianche delle varie medicazioni. Nel suo sguardo profondo e dolce vedo quello che amo di più dell’Africa. Kawira, come a suo tempo Kendi, sono per me delle icone di quel monumento che è la donna africana. In esse vedo il futuro di questo continente, che potrà contare sulla loro tenacia e fedeltà, sul loro senso del sacrificio e sulla loro forza nel sopportare il dolore. In qualunque “Pronto Soccorso” italiano una paziente della sua età avrebbe urlato e si sarebbe dimenata; lei non ha pianto neppure per un attimo, pur avendo dovuto subire tutte le nostre procedure sotto anestesia locale. Penso che finché ci saranno bambine così, il domani non potrà che essere roseo per questa parte così povera del mondo.

Ringrazio Dio per avermi fatto incontrare questa piccola-grande creatura, che rimarrà probabilmente analfabeta per sempre, ma che è portatrice di un germe di speranza che mi ha riempito l’anima durante questo periodo natalizio. Kawira è un successo che il Signore ha voluto donarmi a fine anno, quasi a dirmi: “Non ti scoraggiare mai, anche quando incontrerai burrasche e tempeste, anche quando tutti ti deluderanno e ti sembrerà di essere inghiottito dal vortice delle sconfitte. Riprendi sempre il largo”.

Con lei nel cuore, vi auguro tanta forza per un 2008 ricco di coerenza con ciò in cui crediamo e di impegno vero e costante di servizio ai più poveri.


Un abbraccio, Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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