E’ notte fonda. Sono davvero stremato. Guardo l’orologio e sono ormai le 2. Quando penso che fra 4 ore già devo alzarmi per Messa mi sento male. Allo stesso tempo so che non potrei dormire se andassi a letto subito perché la mia testa è troppo piena e quasi scoppia. Forse questo sarebbe il momento giusto per una sigaretta, ma siccome non fumo preferisco inoltrarmi un po’ verso il bananeto, lontano dalle luci al neon dell’ospedale, per contemplare un po’ il cielo stellato. Stanotte ci sono migliaia di stelle che brillano ancor più perché la luna sta appena sorgendo all’orizzonte ed appare come un disco enorme di color arancione.
Che giornata oggi! E’ davvero una battaglia continua tra la vita e la morte. Qualche volta vince la vita, ma spesso la morte ci ricorda che noi non siamo onnipotenti e che la vittoria finale sarà solo alla fine dei tempi. E’ come se il Signore ci mandasse dei messaggi continui che ci aiutano a sentirci umili: magari eravamo soddisfatti di noi stessi e pensavamo di essere in grado di far fronte ai molti problemi di salute che falcidiano la nostra povera gente. A volte la tentazione di essere orgogliosi di noi stessi può far capolino nel nostro cuore, ma poi capita qualche disastro e ti sembra di non essere più capace di fare nulla, vorresti lasciar perdere tutto e corri il rischio dello scoraggiamento.
Aveva una placenta ritenuta ed aveva sanguinato tutta la notte. Infatti aveva partorito per strada mentre cercava di raggiungere una maternità in Tharaka. Donne di buona volontà l’avevano aiutata nel parto, ma erano forse inesperte e non avevano legato bene il cordone ombelicale. Quando la mamma raggiunse la suddetta maternità, le fu detto che loro non potevano gestire il suo caso perché non avevano possiblità di dare anestetici per togliere manualmente la placenta, e poi non avrebbero potuto trasfonderla. Quella struttura non aveva né auto né autista, per cui il marito si è trovato nella necessità di portare la mamma sul retro della bicicletta. Il parto era avvenuto verso le 22, e la mamma era giunta a Chaaria alle 5 di mattina, quasi completamente esangue. Ci siamo attivati. Abbiamo trovato la vena femorale, e l’abbiamo trasfusa velocemente. Abbiamo rimosso la placenta e pian piano la mamma si è ripresa, ha cominciato a parlare e sembrava completamente fuori pericolo. Ha chiesto della sua bambina, ed è stata felice di sapere che la bimba era in perfette condizioni. Ha iniziato a mangiare qualcosa e non la finiva più di raccontare di come era stata trasportata prima in bicicletta, poi su una cariola e quindi su un “matatu” preso in affitto dal coniuge.
Ero pieno di gioia. Gli occhi si chiudevano per la brevissima notte di sonno, ma il mio cuore era pieno di umana soddisfazione. Avrei voluto andare a colazione e quindi a dormire un po’ prima di riprendere la nuova giornata di servizio, ed invece sono stato chiamato urgentemente in sala parto. Una mamma aveva partorito apparentemente senza problemi, ma il bambino non respirava: ancora una volta erano gli eventi a cambiare i miei piani. Nuovamente in agitazione, si doveva cercare di rianimare quel piccolo neonato che non riusciva a riprendersi. Anche qui il Signore ci ha concesso un momento di soddisfazione umana importante: le nostre manovre infatti hanno rapidamente fatto migliorare le condizioni del paziente, che dopo 45 minuti ha iniziato ad emettere i primi vagiti e poi a piangere vigorosamente. Meno male! Anche stavolta è andata bene. Sembra quindi venuto il momento di fare colazione e di dire almeno una piccola preghiera in Cappella, per ripetere a me stesso e a Gesù che voglio vivere e lavorare per Lui. Ma appena provo a salire in comunità mi viene detto che ci sono ben due cesarei, e che sono urgenti in quanto il feto è in pericolo.
Che fare! Meglio prendere un caffè nel mio studio ed essere pronto appena la sala è pulita e preparata. Il Signore guida la mia mano e per le 12.30 avevamo già terminato il secondo cesareo, e tutti, mamme e bambini, erano in ottime condizioni generali. Uscito dalla sala, pieno di caldo e di sudore, vengo investito da una coda di pazienti “inferociti” che si lamentano perché a loro era stato detto di aspettare con la vescica piena per l’ecografia dell’addome. Molti di loro vengono da Isiolo, che è veramente molto lontano, e sono preoccupati di non riuscire a trovare i mezzi pubblici per tornare a casa.
Si impone quindi un nuovo sacrificio: subito dopo pranzo, dimenticandomi la piccola siesta, si comincia l’avventura dell’ambulatorio, cercando di dare il massimo di attenzione ai problemi di ognuno. Sono spesso problemi complicati, che richiedono tanta attenzione e pazienza. E’ duro soprattutto con le donne che non riescono ad avere bambini. Spesso non è possibile aiutarle, perché i loro problemi sono cronici e praticamente insolubili. Ma come fare a dirglielo? Qui l’adozione non è accettata, e meno ancora lo è tra le popolazioni musulmane di Isiolo. Il marito normalmente si considera immune da problemi dell’area sessuale, per cui è sempre la donna ad essere ritenuta responsabile di ogni tipo di infertilità.
Se la donna non riesce ad avere bambini, i casi sono due: o diventa una seconda moglie, e deve accettare che il marito abbia un’altra partner da cui avrà figli e che quindi riceverà più attenzioni; o spesso viene mandata via (sembra di essere nel Vecchio Testamento!). Tenendo poi presente le tradizioni locali per cui solo i maschi possono ereditare e la donna deve ricevere il sostentamento dal marito, si comprende come una donna ripudiata per infertilità sia in effetti una persona finita: non avrà speranze di risposarsi e non riceverà né soldi né terra o casa dal marito che l’ha ripudiata.
L’ambulatorio è poi reso ancora più stressante dal continuo arrivo di bambini gravissimi, che spesso giungono a noi quando è troppo tardi. E’ il caso di Joy, che per 4 giorni era stata curata con uno sciroppo antibiotico presso il dispensario del villaggio: alla mamma era stato detto che la bambina aveva la polmonite e che questa era la ragione del suo ansimare. In realtà, quando Joy giunse a Chaaria aveva una emoglobina di 3 grammi (praticamente il suo sangue era acqua). Era così collassata che non si trovavano vene, per cui con fatica avevo incannulata la giugulare: iniziava una corsa contro il tempo. Il suo gruppo era 0 positivo e non avevamo sangue compatibile in ospedale. Abbiamo chiesto alla mamma di donare, ma lei ci disse che era nuovamente incinta. Non rimaneva che scegliere un donatore altrove. Abbiamo chiesto ai volontari, ma nessuno era 0 positivo. Siamo quindi stati costretti a chiedere a Mururu (nostro ricoverato debole mentale) che ha accettato a patto che poi lo portassimo a casa a trovare suo padre. Abbiamo raccolto il sangue, ma dopo averlo collegato alla vena di Joy, lei è spirata. Non eravamo arrivati in tempo. Ancora una volta la morte è stata più forte. La disperazione della mamma ci attanagliava il cuore, ma non ci si poteva fermare. Altri pazienti aspettavano il nostro aiuto, per cui abbiamo lasciato la mamma alle cure di Judith, la quale ha cercato di consolarla mentre noi riprendevamo la lista dei pazienti ambulatoriali.
Erano le 18.30 quando decisi di prendere un caffè. I pazienti erano finiti e forse stassera si poteva andare a pregare con la comunità.
Ma ecco che ancora la situazione cambia. La mamma della placenta ritenuta cambia condizioni rapidamente. Si mette a sanguinare da tutte le parti: dalle gengive, dal catetere. “Oh no! Si è complicata con la CID!”. I pazienti con la CID sanguinano dappertutto e qui non abbiamo terapie in grado di fermare tale complicazione. L’unica speranza è quella di tenere vivi i pazienti con trasfusioni e vasocostrittori. Si riparte nuovamente con il cuore in gola: trafondiamo rapidamente tre sacche di sangue, la seguiamo con cura, ma la mamma non riprende più conoscenza e si spegne lentamente. Avevamo messo il monitor, e questo incrementava il nostro senso di impotenza anche visivamente, in quanto vedevamo il battito cardiaco decelerare gradualmente, i complessi ECG diventare sempre più anormali, e noi potevamo solo stringerci nelle spalle e dirci l’un l’altro: “Anche questa volta la paziente è al capolinea. Che sfortuna per lei essere nata qui. Se nasceva a Torino, questo non sarebbe successo!”. La paziente emette l’ultimo respiro alle 21, e sul letto a fianco la sua bimba piange perché ha fame. Ora ci troviamo qui con un cadavere, una neonata ormai orfana, e l’impossibilità di contattare i parenti. Speriamo solo che vengano domani; altrimenti dovremo pensare anche alla sepoltura.
Andiamo a mangiare un boccone, ma nuovamente veniamo chiamati in quanto sono arrivate 3 partorienti, tutte complicate. Maurizio si stringe nelle spalle e dice: “questo è davvero il sacrificio della vita. Io vado a organizzare per la pulizia e la sterilizzazione. Poi vado a prendere l’nfermiera di sala. Nel frattempo tu decidi la lista degli interventi, in quanto non possiamo operarle tutte allo stesso tempo”.
Altro momento tragico. Mi torna alla mente un libro di “Emergency” in cui Gino Strada parla della responsabilità enorme del medico, quando deve decidere che un intervento si può tentare ed un altro invece viene considerato inutile perché il paziente è già troppo grave.
Visito le mamme. Non ho dubbi su chi deve essere la prima, perché è una primipara con presentazione podalica ed ha una dilatazione di 6 cm, per cui bisogna fare in fretta.
Il dubbio è tra la seconda e la terza: infatti una è alla prima gravidanza ed ha il bimbo in presentazione podalica. La seconda è una mamma con altri 3 figli che sembra avere un travaglio prolungato, perche da alcune ore la dilatazione della cervice si era fermata, nonostante il feto fosse in ottime condizioni. Decido di fare il cesareo alla seconda, pensando che l’ultima mamma forse avrebbe partorito da sola, o comunque avrebbe potuto entrare in sala per ultima solo se non avesso partorito entro mezzanotte.
Abbiamo lavorato bene, e verso mezzanotte avevamo finito i primi due cesarei, con tanta stanchezza ma anche grande soddisfazione, sia da parte di Maurizio che da parte dei volontari. L’ultima mamma nel frattempo non aveva partorito; anzi era diventata confusa e accusava un fortissimo mal di testa. La pancia era enorme e durissima, la mamma era sudata. Ho quindi sentito un brivido di sconforto ed ho detto di accompagnare la mamma nel mio studio per l’ecografia di controllo prima dell’operazione. Che dolore! L’ecografia è spietata: non c’è battito cardiaco. Il feto è morto e la mamma sta per complicare con rottura d’utero. Un giorno qualcuno mi regalò un portacenere con una scritta: “gli errori dei medici sono sepolti sotto terra”. Mi sento male, e cerco di vincere il senso di colpa per tentare di salvare almeno la mamma: dobbiamo usare il forcipe per tirare fuori la creatura senza vita, una femmina di quasi 4 chili. Tale manovra non è mai simpatica e la mamma complica con emorragia severa dovuta a lacerazioni interne: trasfondiamo, suturiamo, e alla fine la situazione sembra sotto controllo. La mamma lascia la sala, accetta la perdita del figlio in modo stoico, non ci accusa di niente.
Fr Beppe Gaido
Nessun commento:
Posta un commento