giovedì 1 maggio 2008

Oggi Festa del Lavoro

Quando e’ festa, per noi e’ sempre peggio degli altri giorni. Bisogna dare i dovuti riposi ai nostri collaboratori, e alla fin fine il lavoro e’ molto piu’ pesante che in un giorno feriale qualsiasi.
E’ successo anche oggi: le piogge stanno rallentando molto, e alle 6 di mattina gia’ il sole faceva capolino.

La sala d’attesa era piena gia’ dalle ore 9, quando abbiamo terminato il nostro solito incontro formativo del giovedi’: la lezione odierna riguardava il diabete, che sta dilagando anche in questa parte del mondo.
Il dott. Ogembo ed uno dei clinical officers sono a riposo, cosi’ come molti altri infermieri e membri dello staff. Ci rendiamo conto che oggi bisognerà correre.
Per me la giornata comincia in sala operatoria: dovrebbe trattarsi di un intervento semplice. Prevedo di impiegare circa 40 minuti ad aprire le tube di Falloppio ad una mamma che da anni non riesca a concepire. Dico alle mie assistenti di chiamarmi all’ultimo momento, quando la paziente gia’ dorme, e tutto e’ stato sistemato per l’operazione. Intanto io mi occupo della coda che oggi prevedo quasi infinita.
Come spesso accade pero’, in sala sai quando entri, ma non puoi prevedere quando ci uscirai di nuovo. Infatti l’apertura delle tube era il problema minore per quella donna. La ragione vera dell’infertilita’ erano degli enormi fibromi uterini. Ci siamo guardati un attimo. Poi ho detto a Gatwiri e Jesse: “se non togliamo questi bestioni, la mamma non avra’ mai un figlio suo”. Jesse mi dice che dal punto di vista anestesiologico, lui non ha problemi. Gatwiri aggiunge che lei ha fatto una buona colazione e quindi non dovrebbe svenire anche se l’operazione si prolungasse… allora decidiamo di partire con la lancia in resta, ed uno dopo l’altro rimuoviamo ben 7 masse da quell’utero che alla fine riprende una forma anatomica piu’ o meno normale. Siamo stanchi e soddisfatti quando mettiamo l’ultimo punto sulla cute e quando l’anestesista riesce a farsi sentire dalla paziente che si sta svegliando bene. Il problema e’ che ci abbiamo messo 2 ore e mezza, ed ora l’ambulatorio e’ un vero “macello”.
Pazienza: ci vuole solo calma e sangue freddo. Uno dopo l’altro finiremo anche tutti questi malati che hanno deciso di venire in giorno festivo, con la “chimera” che durante le “public holidays” ci sia meno gente.
Mentre faccio del mio meglio per assistere per primi i pazienti provenienti dal Nord, a motivo del fatto che vengono da molto lontano, sento che Sr Florence mi chiama dal corridoio senza aprire la porta, e mi dice: “Makena e’ malata!”. Le rispondo che lo so e che le ho detto di stare a casa a riposare. Ha la malaria e le ho gia’ dato la terapia ieri sera. Ma la Sister insiste: “No, non e’ a casa. E’ qui… l’hanno portata di peso perche’ sta malissimo!” Finisco in fretta una eco, ed apro la porta: Makena piange e vomita abbondantemente. Si regge appena in piedi ed e’ completamente prostrata. Si catapulta sulla barella e nuovamente riprende a contorcersi per i conati ed i dolori addominali. Ha la febbre. Non posso fare altro che ricoverarla in reparto, e prometterle che la visitero’ nuovamente dopo aver finito l’ambulatorio… oggi certo non prima di notte.
Anche oggi non è mancato lo psichiatrico, che mi ha preso per un braccio ed è riuscito a lasciarmi i segni delle unghie prima che Joseph il watchman entrasse di corsa a darmi una mano.
Ora comunque ho finito l’ultimo paziente. Makena dorme a causa del Plasil in vena: non la sveglio; la visiterò durante il giro del dopo-cena. Osservo l’ambulatorio, ora così silenzioso e vuoto; poi giro lo sguardo all’orologio e mi rendo conto che riesco ad andare in cappella per l’adorazione con la comunità. Trascino i piedi ed ho la lingua impastata a motivo dello sforzo continuo a parlare in Kimeru o Kiswahili durante l’ambulatorio, ma offro tutto al Signore.
Oggi poi è San Giuseppe, ed è la festa dei lavoratori. Penso quindi che io abbia vissuto la giornata di oggi nel modo migliore, in unità con tanta gente sfruttata e stremata da condizioni di lavoro che in molte parti del mondo non sono certo così rosee come in Europa.
Pregherò per tutti coloro che hanno la schiena spezzata e che per tanti sforzi magari ricevono uno stipendio da fame. Sono orgoglioso davanti a Dio di essere uno di loro.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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