Era il 1999 quando la conobbi per la prima volta. Ai tempi non c’erano telefonini o email. In comunità avevamo solo il telefono a manovella con cui chiamavamo il Post Office a Chaaria, e poi venivamo da loro connessi al numero desiderato… almeno quando qualcuno era in ufficio. Infatti, il più delle volte nessuno rispondeva e dovevamo prendere la macchina ed andare direttamente in quel bugigattolo pieno di fili aggrovigliati e intessuti di ragnatele. Alla nostra lamentela che nessuno aveva risposto alla nostra chiamata, le scuse erano varie, ma la più convincente era quella data da Jane: “E perché dovremmo stare in ufficio quando il governo non ci paga da quasi un anno?”.
Jane mi era subito piaciuta. Mi sembrava una persona molto intelligente e volitiva. Ci siamo visti di tanto in tanto in parrocchia, dove a volte andavo per una partita a pallavolo (ai tempi il dispensario era molto meno impegnativo rispetto ad oggi). Jane era una vera campionessa, ed era fortissima soprattutto sotto rete e nella schiacciata.
Dopo esserci conosciuti un po’ meglio, e dopo che Jane aveva deciso di lasciare definitivamente il Post Office che non la pagava da oltre un anno, d’accordo con Fr Maurizio, l’abbiamo invitata a lavorare con noi. Da sempre è stata impiegata nel ricovero dei nuovi “in-patients” e nella loro dimissione: si occupava di prendere i loro dati anagrafici, di accompagnarli in doccia, di offrire loro i vestiti dell’ospedale. Altro compito era quello della dimissione, e della spiegazione delle terapie a domicilio. Per un certo periodo Jane ha lavorato nell’ufficio dell’ospedale, dove si occupava di pratiche burocratiche e di amministrazione.
Dopo notevoli sforzi ero riuscito a fare alcuni esami che avevano portato alla diagnosi di TBC. La cosa ci obbligò a metterla in mutua per circa due mesi, al fine di proteggre i nostri pazienti dal contagio. Ma nonostante la terapia il peso corporeo non migliorava.
Mentre era a casa dal lavoro, la sua bambina di 4 anni si ammalò gravemente. Jane fu ricoverata da noi insieme alla bimba, che purtroppo non rispose alla terapia e pian piano si spense sotto i nostri occhi. Prima che la piccola morisse, ero riuscito a fare un test HIV che era risultato positivo.
La cosa era angosciante perché voleva dire che anche la mamma era positiva. Jane era sfasciata dalla morte della figlia, per cui rifiutò il test.
Intanto il tempo passava veloce e P.O. riprese a lavorare, anche se sempre più debole e incapace di portare avanti compiti che per il passato le erano risultati molto semplici.
Ma la croce doveva farsi ancora più pesante sulle sue spalle: suo marito, ricoverato a Meru General Hospital, moriva pochi mesi dopo la figlia per cause sconosciute, almeno secondo la descrizione di Jane.
La morte del marito fu una mazzata incredibile per lei che finalmente accettò il test ed iniziò la terapia antiretrovirale, che noi le davamo gratuitamente grazie al progetto Esther.
Ma la sua mente diventava sempre più confusa: non veniva a prendere le medicine al tempo prescritto, e questo mi faceva presagire che lei non assumesse le terapie in modo corretto, inficiando quindi le possibilità di successo.
Dopo alcuni mesi Jane mi disse che quelle pastiglie non l’avrebbero aiutata, mentre invece un dottore suo amico le aveva promesso la guarigione con dei preparati di erboristeria. A nulla valsero le mie suppliche di non lasciare la terapia antiretrovirale.
Il tempo passava e le condizioni mentali di Jane peggioravano. Era confusa e non più in grado di eseguire lavori complessi come quelli dell’ufficio o come la somministrazione di terapie ai pazienti. Per questo motivo fu trasferita in lavanderia dove ha prestato servizio per alcuni mesi, fino al giorno in cui ci siamo parlati ed insieme abbiamo deciso che era meglio per lei lasciare il lavoro, tornare alla casa di sua mamma e cercare di ristabilirsi completamente prima di pensare nuovamente ad una attività lavorativa. Fu una decisione molto sofferta, ma alla fine ci siamo lasciati senza amarezza vicendevole.
Avevo notizie di tanto in tanto perché molte ragazze dello staff erano rimaste in contatto con lei: sembrava che stesse molto bene con la terapia dell’amico medico, e che avesse deciso di aprire un chioschetto per la compra-vendita di alimentari. Però le condizioni erano assolutamente precarie, ed il suo benessere era probabilmente come il “canto del cigno”.
Ciò che l’ha portata alla morte nel giro di 3 giorni è stata una brutta malaria per cui è stata ricoverata urgentemente a Meru. Jane non ce l’ha fatta a superare la crisi ed è ritornata alla Casa del Padre il giorno di Santa Rosa, il 23 Agosto 2006.
Siamo andati in molti al suo funerale: una funzione semplice e toccante in cui il sacerdote ha ricordato a tutti che anche i giovani possono morire. Jane aveva 35 anni. E’ stata sepolta davanti alla casa di sua mamma nel solito modo proprio dei Meru: un piccolo tumulo con una croce ed un po’ di fiori che appassiranno presto.
Vi ho raccontato questa storia perché possiate pregare per lei e per i suoi familiari. Inoltre ho voluto ripresentarvi il problema AIDS in tutta la sua gravità per il Terzo mondo, dove intere famiglie ed a volte interi villaggi sono completamente cancellati da questa terribile pandemia.
Ciao. Fr Beppe Gaido
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