sabato 20 settembre 2008

Il fascino irresistibile del nord


Amina entra in room 17 con un grosso zaino. E’ tutta coperta da un lungo vestito nero. Vedo solo i suoi occhi scuri che mi fissano attraverso la fessura del chador. Dietro di lei il marito, in un tradizionalissimo e candido vestito islamico.
Amina si toglie subito il velo che le copre la faccia, e mi lascia vedere anche i bellissimi capelli lunghi raccolti in trecce convolute. E’ bellissima! Come tutte le donne di origine nilo-camitica, ha tratti somatici aggraziati, e’ molto alta e slanciata. Porta vistose decorazioni di colore marrone sulle mani e sui piedi.
Il marito mi dice subito: “veniamo da Moyale. Abbiamo fatto 4 giorni di viaggio per raggiungere Chaaria. Infatti abbiamo sentito parlare di questo ospedale, ed abbiamo fede che le tue medicine ci guariranno”. Io mi sono stretto nelle spalle impotente. “Noi semplicemente facciamo del nostro meglio, ed il resto lo lasciamo a Dio”, gli ripeto convinto. E Mohammed annuisce, e mi ricorda che Allah e’ grande.
Per un attimo mi lascio prendere dai ricordi. Anche io ho fatto quel tratto di strada nel 2005. Avevo deciso di provare a fare il viaggio dei miei pazienti, ed approfittando della presenza di Daniele a Chaaria avevo tentato l’avventura. Zaino in spalla, con un po’ di paura nel cuore, mi ero fatto accompagnare da Joseph fino a Isiolo, alla famosa sbarra, dove molti credono ci sia il confine tra il Kenya e la Somalia.

Era pomeriggio inoltrato, quando ho salutato Kabithi, e mi sono trovato solo a discutere con i camionisti il prezzo di un passaggio sul loro autotreno, fino a Moyale, al confine con l’Etiopia.
Dopo le lunghissime trattative con tira e molla sul prezzo, mi ero messo d’accordo con un Borana il quale mi avrebbe portato solo fino a Marsabit. Di la’ in poi avrei chiesto di nuovo. Non mi ha messo nel cassone con le mucche, come invece ha fatto con decine di altri passeggeri. Mi ha invece stipato nella cabina di guida, dove gia’ si trovava la sua famiglia (moglie e due figli piccoli che si contendevano il seno della donna). Nell’abitacolo c’era un nauseante odore di latte cagliato e le urla stridenti dei due pupi, oltre ad una radio che a tutto volume suonava ritmi arabeschi di carattere evidentemente religioso. Abdi, il mio conducente, e’ stato molto gentile e mi ha subito offerto la branda che si trova dietro ai sedili. Io pero’ ho rifiutato, pensando che questa sarebbe stata molto piu’ utile per la moglie e per i bambini. Lui ha insistito un po’ dicendo che saremmo arrivati a Marsabit molto tardi, verso le 3 di mattina, ma poi ha capito che non mi sarei mosso, e quindi ha fatto un cenno alla donna che si e’ spostata dietro senza dire una parola.
Dopo Isiolo il panorama cambia rapidamente, diventa sempre piu’ secco e stepposo. I colori del tardo pomeriggio e del tramonto esaltano la selvaggia bellezza di cio’ che ci circonda. Man mano che si viaggia verso Nord sulla strada sterrata e molto corrugata, le mandrie di mucche vengono rimpiazzate da altre di pecore, e poi di cammelli. Per un tratto si costeggia il Samburu Park, meta quasi costante dei volontari che passano da Chaaria. Ad Arches Post ci siamo fermati per una pausa urologica: nessun autogril. Io, l’autista ed i molti uomini stipati nel cassone abbiamo orinato davanti al camion, mentre le donne si sono dirette dalla parte posteriore del medesimo. Pochi minuti e poi via di nuovo... la strada e’ difficile e polverosa. Non posso neanche immaginare quanto sia duro per coloro che sono ammucchiati insieme alle mucche che stiamo trasportando a Marsabit. Scoppia la maestosa luce rossa del tramonto, ed attorno a noi e’ tutto piatto, secco. Ci sono solo arbusti e rari cactus. Per strada si vedono uomini variopinti al seguito delle loro mandrie di cammelli e capre. Portano collane e bracciali, fatti di perline colorate e rame. Hanno quasi sempre la lancia, che portano con grande orgoglio. I vestiti sono ridotti al minimo necessario.
In lontananza e’ facile vedere animali selvaggi: bufali, zebre, babbuini e antilopi, e le magnifiche e nobili giraffe.
Mi lascio trasportare dai pensieri e penso che qui uomini, animali e natura dipingono un quadro di una bellezza inimitabile, tanto da farne un paradiso per naturalisti ed antropologi, se hanno il coraggio di avventurarsi in queste terre remote. Addentrarsi da queste parti senza scorta di polizia e’ infatti a volte rischioso, a causa dei molti banditi che assalgono e rubano, protetti dalla immensa solitudine.
Il camion procede lentissimo verso Nord, e mi viene in mente che stiamo percorrendo la Pan African Highway, cioe’ la superstrada che collega le due estremita’ dell’Africa... una specie di transamazzonica del continente nero, che con i suoi migliaia di chilometri in paesaggi cosi’ diversificati, e’ praticamente l’unica strada di collegamento tra il Sudafrica e l’Egitto. Noi la percorriamo nei 500 chilometri non ancora asfaltati, in questa splendida regione del Kenya, dove il tempo sembra essersi fermato, e dove le popolazioni nomadi (Samburu, Borana, Rendille, Turkana) sono ancora fortemente legate ad antiche tradizioni.
Raggiungiamo Marsabit verso le 4 del mattino. Fa molto caldo, anche se la citta’ e’ in una specie di oasi verde, creatasi lungo i millenni in un cratere di vulcano spento le cui pendici sono tappezzate da una splendida foresta tropicale. Mi colpiscono le moschee: le porte sono aperte, e transitando lentamente per strada, riesco a buttare un occhio all’interno. Sono pienissime di uomini in abito e zucchetto bianco, rannicchiati sul tappeto che ricopre il pavimento, nel classico atteggiamento della preghiera islamica. Ancora una volta i musulmani mi danno una salutare lezione di fedelta’ al dovere religioso della preghiera. Quanti di noi cristiani sarebbero in chiesa alle 4 del mattino?
Ci troviamo quasi subito nel caotico mercato del bestiame. C’e’ cosi’ tanta gente che non sembra neppure che sia ancora notte fonda. Io non capisco niente. Tutti mi parlano in Borana, mi strattonano, mi chiedono se cerco un taxi, mi chiamano ripetutamente “my friend”. Sono frastornato e assonnato; ma poi il mio camionista, che non si e’ dimenticato di me, mi trascina verso una Land Rover scassata e straripante di gente, e mi trova un posto a sedere vicino al conducente: “ Muzungu anaenda Moyale (l’uomo bianco va a Moyale)”, dice all’autista, che in un Inglese stentato mi rassicura: “ No problem, Sir”.
L’auto parte sbuffando e ci inerpichiamo nuovamente sulla collina, tra gli alberi, per uscire dalla stupenda oasi/vulcano di Marsabit e puntare verso Nord. Subito dopo l’alba il solleone diventa rovente, ed io, piu’ che la fame, sento i morsi della sete. Arriviamo a Moyale il pomeriggio tardi. Siamo completamente coperti di polvere, stanchi, con la vescica strapiena... ma anche soddisfatti. L’autista del matatu mi vuole fare ancora un favore. Gratuitamente mi porta fino ad un fiumiciattolo, e poi mi dice: “ Lo puoi attraversare a piedi. Di la’ e’ Etiopia. Cosi’ potrai dire ai tuoi amici che sei stato all’estero”... Lo ringrazio molto, vedo un sacco di gente che attraversa in entrambe le direzioni, ma, non avendo portato il passaporto, preferisco non rischiare. In Etiopia ci vado con lo sguardo soltanto; scruto la steppa enorme, e le sontuose montagne tra la nebbiolina dell’orizzonte. Ora devo andare a cercare un posto per dormire e qualcosa da mettere sotto i denti. Visitero’ l’ospedale dove conosco uno degli infermieri, e poi domattina mi rimettero’ a contrattare il prezzo per un camion che mi riporti a Isiolo.
Che viaggio terribile. Che fatica! E pensare che io non sono malato e sono sempre stato seduto in cabina. E’ incredibile pensare che ci sia gente che viene a Chaaria partendo da Moyale, e magari stando nel cassone di un autotreno. Non so perche’ lo fanno. Ora pero’ so quello che a loro costa raggiungerci, sia dal punto di vista fisico, sia da quello economico.
Ritorno velocemente alla realta’. Mi rivedo davanti Amina e Mohammed che hanno atteso pazientemente che io mi riprendessi da questa distrazione potente. “devo davvero trattarli bene e cercare di dare loro il massimo. Se hanno viaggiato cosi’ tanto, si meritano tutte le mie attenzioni. In qualche modo cerchero’ di ricambiare la loro fiducia con la mia gentilezza e con l’ascolto paziente di tutti i loro problemi”.

Ciao. Beppe


1 commento:

Anonimo ha detto...

OLTRE A COMPLIMENTARMI PER IL SUO IMPEGNO, DOVE NON TROVO LE PAROLE PER ESPRIMERLE LA MIA STIMA....LEGGENDO I SUOI RACCONTI, NON RIESCO, A NON LASCIARMI TRASPORTARE, DALL'IMMAGINAZIONE, SULLA BELLEZZA DI QUEI POSTI. UN CARO SALUTO DA UN AMICO DI ROMA.


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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