Nel mio cuore questi mesi sembrano un decennio, tanto sono colmi di eventi, emozioni, sforzi e fatiche. Se rimango su questa dimensione mi pare che i giorni belli trascorsi in Italia siano solo un pallidissimo ricordo perso in un passato remoto. Ed è il 2 Novembre, giorno in cui pensiamo ai nostri morti, ma anche quello in cui facciamo un esame di coscienza, ci interroghiamo e tentiamo dei bilanci.
Alcuni però sono rimasti; ritornano a Chaaria, scrivono e pregano per noi. Sono veramente nostri amici e per loro in particolare io rendo grazie a Dio. Essi mi danno la forza di non chiudermi e di continuare in questo girotondo in cui incontro persone sempre nuove, mi apro e faccio loro capire i miei sentimenti e le mie debolezze, sperando poi che loro non mi tradiscano e soprattutto che non spariscano troppo in fretta.
Quante idee poi sono apparse e scomparse nel corso degli anni. Quanti sogni di trasformare l’umanità hanno poi lasciato lo spazio ad una sorta di umiltà secondo cui oggi mi trovo a pensare che io non devo cambiare niente nel mondo… tutt’al più posso cercare di migliorare un po’ me stesso, se mai ci riuscirò.
Anche spiritualmente il tempo è come il fuoco del fonditore che brucia e fa cadere tutto ciò che era accessorio e non importante, lasciando in piedi solo alcune idee forti che pian piano arrivano a costituire una specie di fulcro su cui costruire la propria vita e per cui anche spenderla.
Ci sono stati tempi in cui a Chaaria si discuteva di grandi tematiche internazionali, o ci si confrontava sulla globalizzazione, o si facevano riflessioni più o meno filosofiche sulle colpe delle popolazioni africane nella genesi e nel mantenimento del sottosviluppo. Ora è come se il tempo mi avesse levigato il cuore e mi avesse seccato le corde vocali. Non ho più voglia di parlare, di esprimere giudizi, di proporre soluzioni dall’alto al basso. Adesso credo che l’unica risposta al male che c’è nel mondo sia il silenzio, accompagnato dal nostro impegno serio e costante nel servizio a chi soffre o è nella povertà. Tutti parlano oggi, e forse il parlare ci serve per calmare i sensi di colpa che il silenzio genera nella nostra coscienza. Sempre più do ragione a Padre Peppino Maggioni che mi diceva: “Il vero Missionario entra in una cultura in punta di piedi; per almeno dieci anni sta zitto ed osserva. Poi, potrà con umiltà provare a esprimere anche qualche punto di vista sul positivo o sul negativo della cultura delle persone a cui è stato mandato”.
Ma più profondamente ancora credo che il centro di gravità a cui il Signore mi sta attirando fortemente, giorno dopo giorno, sia l’interiorizzazione del fatto che nel povero che servo c’è Gesù. Sì, penso che questa sia la semplificazione esistenziale a cui Dio mi sta portando con l’aiuto della “macchina del tempo” che a Chaaria funziona in un modo un po’ strano. Piano piano mi rendo conto che tanti orpelli anche spirituali sono crollati; prendo coscienza di molte cose che per il passato mi erano sembrate centrali nel mio cammino, e a cui ora non credo più o a cui do sempre meno importanza.
Però questa idea-forza non viene meno e cresce giorno per giorno: io ho la possibilità di incontrare il Signore tutti i giorni nelle persone che hanno bisogno del mio aiuto. E’ una specie di contemplazione nell’attività in cui ho la possibilità di avere Gesù tra le mani tutti i giorni e di servirlo sempre meglio nelle sue necessità fisiche e spirituali.
In tale sforzo mi aiuta moltissimo la spiritualità del Cottolengo quando mi incita a “non farmi chiamare due volte, ma a volare al letto del malato come sulle ali della carità”. Mi ricorda che i malati sono come “la pupilla dell’occhio” nella nostra vita quotidiana; sono la verifica del nostro cristianesimo, in cui abbiamo la quotidiana possibilità di verificare se in cappella abbiamo veramente pregato o se abbiamo solo blaterato parole che poi non sono diventate vita.
Quante cose cambiano con il tempo. Guardare indietro a quanto è successo dà sensazioni contraddittorie: a volte sensi di colpa per le occasioni perdute, per il bene non fatto o fatto male, per le nostre cattiverie a cui spesso ci siamo piegati ed adattati. Altre volte nostalgia per gli amici che sono stati un po’ persi di vista nella foschia dei mesi che passano, o per un tempo in cui eravamo più giovani e forti, più efficienti e resistenti alla fatica. A volte soddisfazione per il cammino percorso; spesso la sorpresa per la mole di eventi che ci sono “passati addosso” e che indubbiamente ci hanno modellato come la mano del vasaio con la creta. Spesso un senso di sollievo nella consapevolezza che il tempo è come un grande medico che fascia tutte le nostre ferite, le addolcisce pian piano e riesce a ridonare un colore roseo anche ai dolori più lancinanti e ai periodi più oscuri.
Fr Beppe Gaido
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