giovedì 6 novembre 2008

La notte a Chaaria: affascinante e paurosa


Dopo cena improvvisamente ci accorgiamo che manca l’acqua. Che strano! Che sia nuovamente un problema di pompe? Mi faccio accompagnare da David ed andiamo al pannello di controllo vicino al generatore. Nessuno di noi ha una torcia, e ci inerpichiamo con fatica nel buio pesto della giovane notte. Sbattiamo qua e là e ad ogni passo mettiamo il piede in fallo. Il cielo sopra di noi è trapuntato di stelle finissime che ci guardano a milioni. La volta celeste è limpida, dopo le piogge del mattino, ed è di un nero assoluto, visto che la luna ancora non è sorta. Ci sono astri grossi e luminosi come venere, ed altri così piccoli che appena si percepiscono. La via lattea sembra davvero una enorme autostrada, un mosaico costituito da una infinità di candidi puntini. David, che è un convinto sostenitore delle teorie di Einstein, mi mette una mano sulle spalle e mi dice: “Non ti sembra di percepire qualcosa dell’universo infinito e sempre in espansione?”.
“Onestamente sì – gli rispondo un po’ soprapensiero – e quando mi perdo in queste infinità, sempre mi viene da pensare a Dio, e alla nullità della natura umana. Siamo molto meno di uno di quei miliardi di granellini sopra di noi!”.

Arriviamo al pannello elettrico e ci rendiamo conto che semplicemente nessuno si era ricordato di accendere le pompe. Provvediamo subito, anche se sappiamo che ci vorranno almeno due ore prima che l’acqua ritorni nei rubinetti. Propongo a Davide di salire sui tank e di controllare se effettivamente stiamo pompando oppure no. Con un pizzico di incoscienza, nel buio più totale ci inerpichiamo sulla scaletta e guadagniamo la sommità degli enormi contenitori di cemento, socchiudiamo la botola ed ascoltiamo con piacere il tonfo del fluido che scorre e si butta nel grande bacino completamente vuoto.
A questo punto veniamo come invasi da una grande emozione. Da quella altezza ci sembra di essere veramente immersi nello spazio. Sotto di noi solo buio e qualche luce in lontananza. Non si vedono alberi, ma si percepisce la loro presenza dal fruscio delle loro chiome mosse gentilmente da una brezza leggera.
Questi spettacoli sono come medicine: mi curano l’anima. Ho solo voglia di stare lì per un po’ e di respirare a pieni polmoni la solitudine e la bellezza cosmica. Il cielo notturno mi lascia semplicemente senza fiato e mi regala una pace che guarisce in un momento la stanchezza della giornata, e tutte le ferite che la vita quotidianamente infligge.
Anche David vive questa comunione con la natura, ne sente il respiro e rimane immobile per alcuni minuti. Poi mi dice: “Sarà per questo che Gesù bambino è nato a mezzanotte... senti che mistero ci circonda e che fascino indescrivibile”.
La notte è piena di rumori, che si colorano di un aura soffusa: si sente il vociare lontano proveniente forse da capanne che non riusciamo a vedere perchè sprovviste di elettricità , il frequente muggito di qualche mucca ancora sveglia, il verso ritmico delle nostre scimmie, il continuo gracchiare delle rane frammisto al canto delle cicale e dei grilli.
Non vedi niente, ma ti senti circondato da una vita rigogliosa.
La nostra contemplazione viene però bruscamente interrotta dal cercapersone: è Kathure a chiamare: “vieni subito perchè abbiamo un caso di violenza, che ha bisogno di sutura”.
“Lo sapevo che questa pace non poteva durare”, dico a David, mentre con fatica scendiamo la scaletta verticale dei grossi tank.
Goffamente camminiamo nel buio, ed arriviamo all’ospedale: davanti a noi una scena raccapricciante: una povera donna a cui il marito aveva staccato il pollice sinistro e quasi amputato la mano destra, durante un momento di follia. Il crimine, come al solito, era stato compiuto con un machete (o panga, in Kiswahili), e la malcapitata è stata portata in ospedale dai vicini di casa che hanno usato la consueta ambulanza tradizionale: cioè un carretto trainato da una mucca.
La mia prima reazione è stata di malessere: sangue ovunque. Agitazione delle infermiere che non sapevano dove inserire l’accesso venoso, pianti delle donne che aspettavano nell’anticamera.
In un “flash back” durato qualche secondo ho pensato all’enorme problema della violenza all’interno del nucleo familiare: quanti mariti che picchiano e seviziano le loro mogli! E’ una grande piaga di cui si parla troppo poco.
Poi iniziamo a lavorare. Per la mano sinistra non c’è null’altro da fare che completare l’amputazione. Il pollice era stato tagliato via completamente, ed addirittura smarrito nella confusione. Non avevo altra scelta che togliere le schegge ossee rimaste, per poi chiudere i muscoli e la cute. Perdere il primo dito è una menomazione inimmaginabile. Speriamo solo che la donna non sia mancina.
Poi mi accingo a sistemare la mano destra, dove alcune ossa sono fratturate ed qualche tendine tagliato di netto. Ci sono anche arterie ancora aperte, che zampillano come fontane al ritmo del battito cardiaco. La mamma è stoica e mi lascia lavorare usando semplicemente anestesia locale. Resto sempre molto impressionato dalla loro capacità di sopportare il dolore. Però c’è un altro aspetto che mi ha veramente colpito in questa paziente: pur in preda ad un dolore lancinante e ad una importante emorragia, non ha mai espresso alcun giudizio negativo sul coniuge.
Le ho chiesto dov’era il marito, e lei semplicemente mi ha risposto che era a casa, come se ciò fosse la cosa più naturale del mondo. Io poi l’ ho incalzata un po’, domandandole se lo avrebbe perdonato. Lei mi ha guardato un attimo, e quindi ha semplicemente esclamato: “poverino, era ubriaco e non se n’ è neppure reso conto. Chissà come ci rimarrà male domani quando sarà completamente sobrio e dovrà fare i conti con la realtà”. Una risposta incredibile per i miei standard occidentali! Ma il mio stupore, pur essendo già alle stelle, è cresciuto ulteriormente quando, nel momento stesso in cui io cucivo e cercavo di salvare il salvabile, lei ha cominciato a parlarmi del suo figlioletto di sei mesi: mi ha detto con decisione che fuori c’erano altre donne, e che il suo piccolo non avrebbe dovuto tornare a casa, ma sarebbe rimasto con lei in ospedale, perchè lo avrebbe allattato durante la notte.
“Sei sicura di farcela?. Avrai male, ed io ti farò anche dei calmanti. Non è meglio che te lo portino domattina?”
“Neppure per sogno! E’ abituato a succhiare al seno di notte, e io credo di esserne in grado, nonostante flebo, bendaggi e gesso”.
Io non riesco veramente a spiegarmi da dove le donne prendano tutta questa forza interiore.
Che monumento è la donna africana, e che mistero è la maternità: è come se la madre ormai non si appartenesse più e vivesse solo per la sua creatura. E’ troppo commovente per me pensare ad una malata fatta a pezzi, una malata che avrebbe potuto essere stata uccisa pochi minuti prima, non parlare mai del suo dolore o dell’ handicap che ne seguirà, ma pensare unicamente al pargoletto di sei mesi che ha fame ed ha bisogno del suo seno. E poi, non una parola astiosa verso il marito! Hanno davvero una marcia in più.
Ringrazio Dio per queste donne, ed anche oggi mi rafforzo nella mia convinzione che saranno loro a salvare questo continente, a farlo camminare verso un futuro più roseo, e a donare ai loro figli tutto quanto esse non han potuto godere per se stesse.
Senza il pollice sinistro, la mia malata sarà svantaggiata per tutta la vita. Spero comunque di aver fatto un buon lavoro per la mano destra, in modo da permetterle ancora di lavorare per quei pargoli a cui si è totalmente votata . Mi avvio verso la sala d’aspetto e prendo il pupo. Con evidente difficoltà la sua mamma se lo attacca al seno immediatamente ed abbozza un sorriso e qualche moina. Questa è un’altra scena incredibile, che mi incanta e mi paralizza non meno di quanto prima abbia fatto il cielo stellato. Una madre che allatta è come un’icona da contemplare in silenzio, ma questa donna ferita è veramente un’immagine di una sacralità indescrivibile.
Guardo l’orologio, ed è già molto tardi. Mezzanotte è passata da un po’. Lancio un’occhiata a David e gli dico che sarebbe bene andare a “cuccia” alla svelta, ma un nuovo trambusto attira la mia attenzione verso il cancello. Si tratta di una vecchia “Land Rover”: attorno ad essa un vociare concitato e scene di confusione. Tra la folla non ci sono donne, e mi rendo conto che non può trattarsi di un caso di maternità. Mi avvicino con timore, soprattutto pensando che non sarei più riuscito ad andare a letto: sul retro dell’auto due corpi. Il primo è di un uomo evidentemente massacrato a bastonate, ma ancora vivo. Chiamo il watchman e lo faccio portare dentro per il primo soccorso da parte degli infermieri. L’altro è invece completamente immobile: accosto la torcia e mi rendo conto che l’uomo giace in una pozza del suo sangue. Salgo in macchina e guardo più da vicino. Metto la luce a pochi centimetri dalle pupille, ma non ci sono reazioni. Chiedo a David di portarmi un fonendo: nessuna attività cardiaca o respiratoria. Una voce da dietro mi dice: “C’erano i ladri a Chaaria market. Erano armati. Lui forse li ha riconosciuti e lo hanno freddato con il fucile”. Rimango di pietra, anche se ho le lacrime che mi salgono dalla gola. Lo guardo meglio. E’ un uomo di mezza età dalle fattezze a me familiari. Dopo un po’ riconosco il metronotte che faceva la guardia ai camion parcheggiati nel piazzale del paese: quante volte mi ha aiutato quando alle 2 notte dovevo andare a prendere Gatwiri per un cesareo. Avevamo solo la vecchia auto che si metteva in moto unicamente a spinta. Se la avessi spenta, non sarei più stato in grado di riavviarla. Allora la lasciavo in moto davanti a lui e gli dicevo: “Guarda che nessuno si avvicini perchè le portiere sono aperte e ci sono le chiavi dentro!” Poi correvo a chiamare la mia infermiera che abita in un viottolo non accessibile agli automezzi. Ora è morto. E’ stato ucciso solo perchè faceva il suo dovere. Mi assale una tristezza immensa, mentre dico una preghiera per lui e mi avvio a visitare l’altro malcapitato. Mi accompagna il poliziotto, mio amico da tempo; gli dico: “certo che la notte a Chaaria è veramente bella se osservi la natura rigogliosa che ci circonda, ma se pensi a tutto quello che capita giorno dopo giorno, è davvero anche paurosa... vediamo di aiutare almeno quel poveraccio e cerchiamo di non farci prendere dal panico”.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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