venerdì 7 novembre 2008

Se ne è andato?


Domenica sera dopo cena ho ricoverato una ragazza con un forte mal di pancia. Alla visita ginecologica ho trovato un bastoncino inserito nell’utero (metodo tradizionale di aborto); dopo aver estratto il bastoncino, la ragazza ha partorito (6° mese di gravidanza). Il feto è uscito con il sacco amniotico intatto: noi siamo rimasti stupefatti perché il feto si muoveva ancora nella acque calde. Abbiamo rotto la membrana ed il bimbo ha continuato a dare qualche “colpo” di respiro. La madre imperterrita, non lo ha voluto vedere. Noi lo abbiamo battezzato prima che morisse.
Nello stesso giorno avevo fatto un raschiamento ad un’altra donna per un aborto spontaneo. Questa piangeva perché era la seconda volta che perdeva il figlio e lei vorrebbe tanto averne uno. Quell’altra rideva perché ce l’aveva fatta a far fuori il figlio non desiderato.
Mentre ancora la mia mente è disturbata da questi pensieri, sono stato chiamato urgentemente a rianimare un bambino di 4 anni, appena arrivato in ospedale da molto lontano: era gonfio come un pallone su tutto il corpo, ma profondamente emaciato sul volto. Durante gli interminabili minuti in cui ho tentato la rianimazione del piccolo, la mamma era stata mandata in doccia per lavarsi ed indossare l’uniforme dell’ospedale.

Purtroppo però le mie mani sono state inutili ancora una volta... Il bambino, probabilmente cardiopatico grave o affetto da insufficienza renale, è spirato davanti a me dopo pochi istanti. Io sono rimasto annichilito e senza parole, come mi capita di solito. Non ho emesso grida o pianti isterici. Sono rimasto di pietra.
Quando la mamma è uscita dai servizi, ancora umida dopo il bagno salutare, mi si è avvicinata, ha guardato il bimbo, poi si è appoggiata con il suo braccio contro il mio, e mi ha chiesto: “se n’é già andato via?”. Io ho posto la mia mano sulla sua spalla e le ho sussurrato: “ Sì, se n’è andato così in fretta e non tornerà più”.
Allora la disperazione della mamma è stata grande, ma muta. Ha toccato il corpicino ovunque; ha posto la sua bocca vicino a quella del figlio per sentire se ancora respirava. Le lacrime scendevano copiose, ma lei non diceva neppure una parola. Dopo attimi che mi sono parsi un’eternità mi ha fatto solo una domanda: “E’ andato in Paradiso?”. Io mi sono sentito un nodo alla gola che mi ha impedito di parlare per un po’. L’ho solo tenuta per un braccio ed ho alla fine balbettato: “certamente!”.
Sono ancora sotto la forte impressione emotiva di quanto è appena successo anche se purtroppo è una scena quasi quotidiana per noi: quanta sofferenza innocente, quanti bambini che si potrebbero salvare se solo fossero nati in Italia. Quante giovani mamme non ce la fanno e soccombono alla malattia.
Ancora una volta vi dico grazie perchè in questo nostro cammino di alti e bassi noi non ci sentiamo soli e sappiamo che tutti voi ci sostenete con la vostra preghiera ed amicizia.
Il nuovo insuccesso non ci spaventa.
Continueremo a fare quello che possiamo, ma lo faremo con grande entusiasmo. Ci sentiamo come in cordata: noi qui a lottare sul campo, e tutti voi a sostenerci sia logisticamente, che moralmente ed economicamente.
Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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