venerdì 27 febbraio 2009

In macchina verso il Tharaka

Il paesaggio è estremamente bello. La natura è pressoché incontaminata e bellissima; ogni tanto qualche scoiattolo, capra o gallina ci tagliano la strada.
Man mano che ci allontaniamo da Chaaria, lungo la strada cominciano ad esserci non più case di legno con il tetto in lamiera, ma sono preponderanti quelle fatte di fango e paglia; spesso sono addirittura così piccole che sembra impossibile che qualcuno ci possa vivere dentro. La strada è sempre più malmessa e, in alcuni tratti, ho quasi l’impressione che il veicolo si possa capovolgere da un momento all’altro; per non parlare della polvere rossa che, sollevata dall’auto come una nuvola, penetra all’interno nonostante i finestrini chiusi. Lungo la strada incrociamo molta gente che va a piedi: donne con i bimbi sulla schiena, altre curve che trasportano sulle spalle pesanti fascine di legna, oppure sacchi così pieni che sembrano quasi scoppiare, bambini che pascolano le mucche o le capre; altri bimbi assieme ai più grandicelli vanno e tornano dal ruscello portando taniche piene d’acqua, o meglio trascinandole dato il loro peso eccessivo.
Ed ecco che passiamo vicino al ruscello che ai miei occhi appare quale un piccolo corso d’acqua dall’inconfondibile tinta rosso-marrone, ovviamente non potabile... e invece qui si ha l’impressione che quell’acqua sia indispensabile alla vita. In pochi metri si vede di tutto: chi riempie d’acqua le taniche, chi lava i vestiti, chi porta le mucche ad abbeverarsi... Non posso fare a meno di pensare alle nostre comodità, facendo il confronto con la nostra vita; in casa nostra basta semplicemente aprire il rubinetto e l’acqua potabile scorre, calda o fredda, per ogni uso domestico; per non parlare della corrente elettrica, del bagno in casa, delle strada asfaltate... insomma, tutte cose a cui noi siamo abituati e che diamo per scontato, e invece qui...
Così mi nascono dentro un sacco di emozioni: di vergogna per tutto quello che abbiamo e che spesso non apprezziamo, rabbia, tristezza, senso d’impotenza...; allora mi pongo una serie di domande: perché c’è chi non ha neppure il necessario per vivere, chi soffre così tanto, chi conduce una vita così dura e, al contrario, c’è chi ha, non solo il necessario, ma addirittura il superfluo, c’è chi conduce una vita con tutte le comodità, per cui ogni cosa, anche la più banale, appare indispensabile?
Di certo anche da noi la vita non è facile e non mancano le difficoltà; ma, se guardo le cose da qui, dalla parte dei poveri, il mio punto di vista è un po’ diverso e vedo ogni cosa sotto un’altra luce.



Una volontaria



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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