sabato 18 aprile 2009

Non giudichiamo i poveri


Oggi ho dovuto prendere la macchina ed accompagnare a casa i resti di una persona morta parecchi giorni prima nel nostro ospedale. Era tempo che non facevo più questo servizio. Da tempo mi sono convinto che non possiamo permettercelo perché le strade sono pessime, le nostre automobili vecchie e le forze inevitabilmente misurate. Sempre, inoltre, dobbiamo fare i conti con le non indifferenti spese di carburante.
Ma la situazione oggi era diversa: si trattava di un uomo morto da più di 10 giorni, e collocato in cella frigorifera nel nostro obitorio. Già stavo pensando di seppellirlo nel cimitero interno dell’ospedale, ma sono stato dissuaso dal “Public Health Technician” che mi ha detto che per legge dovevo aspettare fino a 15 giorni.
Poi, con mia sorpresa, due giorni fa è arrivata una bambina di non più di 14 anni. Era impaurita ed evidentemente poverissima: cercava suo papà e nessuno dello staff aveva il coraggio di dirle che il suo babbo non c’era più. Ancora una volta è toccata a me. E’ stato uno di quei momenti terribili, in cui dici a te stesso che davvero fare il medico è spesso molto amaro. La piccola parlava un Kiswahili stentato ma mi capiva a sufficienza. Io sono partito da lontano e le ho detto che suo papà era stato molto male, e per tanti giorni, senza vedere nessuno. Le ho quindi chiesto: “come mai la mamma non è mai venuta a visitarlo? Ha altri bambini piccoli da accudire?”
Sono seguiti interminabili momenti di silenzio in cui la piccola guardava nel vuoto e non rispondeva.
Al che, da buon Occidentale senza pazienza, io le ho dato la notizia in modo abbastanza brusco e sbrigativo perché sentivo già una tensione interiore crescermi dentro pensando alla coda di pazienti che ancora aspettavano fuori.
La bimba non ha pianto e mi ha detto che sarebbe tornata “kesho kutwa” (dopo due giorni). Ho cercato di recuperare e di essere molto tenero nella continuazione del discorso, ma ormai lei voleva andare via. Le ho domandato se voleva vedere il suo papà nella camera mortuaria, ma lei ha detto di no con un evidente gesto di paura. E’ quindi partita, promettendomi di tornare come stabilito.
Ed infatti è successo proprio così, ma invece di veder arrivare un “Land Rover” scassato e pieno di parenti in lacrime, ho rivisto la stessa bambina, che era tornata a piedi e senza alcun mezzo per il trasporto del cadavere… non parliamo neppure di soldi. Anche i vestiti erano quelli che aveva addosso il nostro primo incontro.
Ancora una volta ho permesso al mio congenito razzismo di avere la meglio per un attimo, ed ho detto allo staff: “questo è il solito trucco. Mandano una bambina senza soldi, così lo “ Mzungu” (uomo bianco) porta a casa il cadavere gratuitamente”.
E’ l’una del pomeriggio, e la situazione in ospedale sembra abbastanza tranquilla. Il Dr Ogembo è presente ed in caso di cesareo urgente può intervenire lui. Prendo la decisione in un attimo: “Vado io a portare il morto a casa, così posso anche dire la mia a questi adulti irresponsabili che cercano di fregarci anche nel momento drammatico della morte di un congiunto”.
Prendo la macchina più vecchia (la spugna come è ormai conosciuta anche da tutti i volontari), carico il corpo di quel papà e poi faccio salire al mio fianco la piccola Kendi, che è molto timida ed allo stesso tempo ha una gran paura a stare nella stessa auto dove è collocato il defunto.
Dopo lunghe trattative con la piccolina che voleva tornare a piedi, ci avviamo insieme verso Gachua (a circa 14 km). Per convincerla a salire, le ho dovuto dire che non conoscevo la strada e che non sarei mai arrivato a casa sua da solo. In macchina le chiedo del funerale: lei dice che verrà un catechista perché nessun prete era disponibile. Le domando, quindi, se nella sua famiglia sono cattolici: lei fa un segno di assenso con il capo. Guido lentamente tra le buche e non so cosa dire. Provo molta tenerezza per questa bimba malvestita ed impolverata. Tra l’altro nella furia di scoprire l’inganno degli adulti che non si erano presentati, non le avevo neppure offerto un pezzo di pane o un po’ di “Chai”. Le ho chiesto se aveva fame, e lei mi ha detto che non mangiava da più di 24 ore. Inchiodo la macchina a Giaki e compro una confezione di pancarrè ed una bottiglietta di succo d’arancia. Lei accetta subito. Stringe il malloppo al petto e non mangia nulla.
Quando arriviamo a Gachua le chiedo dove è la sua casa. Lei mi fa entrare in un sentiero sempre più stretto, fino al punto di continuare il viaggio nei campi per almeno qualche chilometro. Mentre vado su e giù per i dossi, lei sempre mi ripete che siamo arrivati, ma intanto io continuo a guidare.
A un certo punto mi dice di fermarmi: alla mia destra un tugurio di fango e paglia, un gruppo di bambini più piccoli di lei ed una vecchia quasi cieca seduta sotto una pianta. Le ho chiesto: “ma dove sono gli altri?” Mi risponde che, a parte i suoi fratellini e la nonna, erano morti tutti. Io, quasi senza rendermi conto che la mia domanda avrebbe aumentato il suo dolore, le chiedo: “e la mamma?” Kendi mi dice che è gravissima all’ospedale distrettuale di Meru, ma che non sa ancora che il papà è morto. “Ieri sono andata a Meru a piedi a vedere la mamma e le ho detto che il babbo migliora. Allora la mamma mi ha detto di ricordargli di non bere tanto e di iniziare a seminare perché è stagione delle piogge. Ora che lui non c’è più non so chi seminerà”.
La mia confusione è totale e non so cosa dire: ero venuto quasi per riscuotere i soldi che loro non avevano pagato per l’ospedale, ed il Signore mi ha dato un’altra legnata.
Una di quelle che, nella loro umiliazione, solo i poveri ti sanno dare.
Che brutto quando abbiamo dei preconcetti, quando pensiamo di giudicare le intenzioni degli altri, quando crediamo di sapere tutto della situazione del nostro prossimo. Io, al di là del fatto che nessuno ha pagato per questo ricovero, non ho mai saltato un pasto, ho la corrente elettrica e l’acqua in casa. Ho un’automobile quando ne ho bisogno e posso usare Internet. Qui non c’è niente, neanche un gabinetto, e l’acqua bisogna andare a prenderla al fiume. Che stupido sono stato! Il Signore voleva farmi capire che si può coltivare sentimenti di razzismo anche quando si pensa di donare la propria vita come missionari. Quante volte giudichiamo i poveri e ci sentiamo migliori di loro… e questo non è bello!
Kendi ha poi preso l’iniziativa perché io ero paralizzato. Mi ha aiutato a scaricare il cadavere e a porlo sulla nuda terra vicino alla fossa appena scavata. I bambini non c’erano più. Li aveva mandati via, in una famiglia di vicini a giocare: “ non voglio che si fermino al funerale… sono troppo piccoli. Capiranno più avanti quello che è capitato al papà”.
Intanto è arrivata un po’ di gente: si è sistemata in silenzio, seduta sull’erba, aspettando l’inizio della cerimonia. Da ultimo, con il proverbiale ritardo dell’”african time” si è presentato anche il catechista. Non avevo intenzione di fermarmi alla celebrazione: avevo tanto da fare in ospedale. Ho dato uno sguardo a quel cadavere avvolto in un lenzuolo, vicino alla fossa in cui sarebbe stato posto. Ho salutato Kendi e le ho detto di essere forte. Senza troppa convinzione ho aggiunto: “vedrai che la mamma tornerà presto!” Le ho quindi promesso che l’aiuterò se avrà bisogno di me. Ho detto una preghiera e sono salito in macchina, mentre ancora il catechista dava ordini su come la celebrazione si sarebbe dovuta svolgere.
E tra me penso e ripenso: che botta al cuore. Che lezione di vita da parte di quella poverissima bambina che certo vorrò aiutare. So che anche sua mamma non ce la farà, perché purtroppo so di cosa è morto il marito. Chissà se anche Kendi è affetta da HIV. Forse lei no, perché è troppo grande, ma i piccoli possono essere certamente positivi. Che disastro questa malattia… che mistero la sofferenza dei poveri!”
Il mio umore è terreo, ma mi ripropongo di andare a trovare Kendi prestissimo, magari domenica pomeriggio… e poi cercheremo d’aiutare questa situazione così terribile. Lasciamo solo che passi qualche giorno dal funerale. Dobbiamo fare il test a tutti quei bambini e magari iniziare, se risultassero positivi, la terapia antiretrovirale. Già, ma poi chi li segue? Chi darà loro le medicine al momento opportuno? Chi procurerà loro il cibo o il necessario per la vita? La nonna è vecchia e quasi non ci vede. Sarà tutto sulle spalle di Kendi. Ma lei ce la farà?
Ed insieme mi ritorna un’autocritica continua: perché ho giudicato questi poveri senza conoscere? Perché al di là delle apparenze sono ancora razzista? Perché penso sempre che gli altri mi vogliano fregare invece di dar loro fiducia?
Sono davvero un peccatore e oggi, di nuovo, l’ho toccato con mano.
Ciao.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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