mercoledì 3 giugno 2009

L'amore che uccide

Occhio e croce Gladys non ha piu’ di 20 anni. E’ stata ricoverata da noi per quasi una settimana con il suo pargoletto di circa sei mesi: il piccolo e’ sempre stato molto grave, ed il miglioramento non e’ mai stato come lo avremmo desiderato.
Dopo pochi giorni il bimbo ha iniziato a respirare con difficolta’ e ad accusare una tosse stizzosa che non lo lascia dormire. Le sue unghie e le sue labbra sono diventate di colore bluastro. Oltre al chinino e agli antibiotici, abbiamo dovuto far ricorso spesso all’ossigeno.
La preoccupazione piu’ grossa della mamma e’ il fatto che suo figlio non succhia bene al seno. Ho provato a spiegarle che in parte cio’ e’ legato alla malaria, ed in parte al fatto che la grave polmonite che ha complicate il quadro clinico, gli rende difficoltoso respirare e allattarsi al seno nello stesso tempo. Le ho detto comunque di non mollare e di continuare ad attaccare il suo Mwirigi alle mammelle, nella speranza che di qualcosa riesca a nutrirsi.
Gladys e’ sempre stata molto ubbidiente. Poi ieri sera tardi e’ corsa da noi con il fagottino contenente il suo piccolo. Era trafelata. Mi ha detto che Mwirigi aveva avuto un grosso conato di vomito, dopo aver succhiato bene per alcuni minuti. Quindi ha dato un respirone a cui e’ seguita una tosse violenta per pochi secondi. Dopodiche’ e’ come se avesse perso conoscenza.
Ho guardato il bambino e mi sono accorto che non respirava affatto: invece una abbondante quantita’ di schiuma frammista a sangue rosso vivo gli usciva dalle narici e dalla bocca. Il battito cardiaco era ormai molto lento, non superando i 15 al minuto.
Ci siamo buttati su di lui ed abbiamo sfoderato tutte le nostre conoscenze di rianimazione neonatale. Quando ho inserito un tubo di aspirazione giu’ per la trachea, ne ho ottenuto una quantita’ incredibile di latte, frammisto a sangue schiumoso. Questo ha dato una indicazione inequivocabile su quanto era successo. Mwirigi aveva inalato del latte che era quindi penetrato profondamente nell’albero respiratorio, causandogli un edema polmonare (piu’ o meno come un annegamento interno).
Dopo aver aspirato il materiale alimentare, ed aver stimolato la respirazione con farmaci e con uno strumento che pompa ossigeno nei polmoni (l’ambu), il piccolo ha ripreso una respirazione stertorosa ma sempre piu’ regolare. Gli abbiamo dato delle medicine per aiutare il cuore a riprendere l’ attivita’ regolare, e pian piano i battiti sono risaliti, fino a raggiungere i cento al minuto.
Dopo piu’ di un’ora abbiamo ottenuto una attivita’ cardiaca ritmica ed un respiro affannoso ma stabile.
Ma Dio aveva piani diversi.
Mwirigi ha passato la notte senza grossi problemi, ma al mattino era nuovamente in arresto respiratorio. Abbiamo ripreso la rianimazione, e ci siamo accorti che, nonostante le nostre iniezioni di destrosio in vena, era andato in ipoglicemia grave. Siamo intervenuti subito, ma questa volta non c’e’ stato nulla da fare, ed il piccolo ci ha lasciati sotto gli occhi atterriti della mamma che si e’ abbandonata ad un pianto inconsolabile.
Mwirigi era il suo primogenito. Che angoscia assistere impotenti alla disperazione di Gladys, che ha iniziato a rotolarsi sul pavimento, rifiutando ogni consolazione.
Anche per noi e’ molto dura accettare la sconfitta; e’ innaturale vedere una ragazza di vent’anni disperarsi per aver perso il suo unico pargolo. Sarebbe piu’ logico dover consolare un figlio per la morte di un genitore… invece , quante volte a Chaaria succede il contrario!

Fr Beppe


PS: ogni giorno continuiamo a ricoverare bambini piccoli, con una media quotidiana di circa 20 nuovi pazienti. Siamo nel bel mezzo di una epidemia di gastroenterite, che causa forme gravi di vomito, diarrea e disidratazione severa.
Inoltre, pur essendo alle soglie della nostra stagione invernale, i casi di malaria complicata in eta’ pediatrica non accennano a demordere.


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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