lunedì 20 luglio 2009

Kiamuri, Rikana, Gatunga...


... sono state per i volontari esperienze molto forti. Vivendo in ospedale, al di là della drammaticità della malattia e della morte, si può anche correre il rischio di avere una visione asettica dell'Africa. Si può pensare che il vestito bello che i pazienti indossano in ambulatorio sia davvero quello che normalmenmte portano nella vita privata. Andare a vedere dove vivono certamente aiuta ad inquadrare meglio il nostro servizio: pur rendendoci conto dei miglioramenti economici di molte famiglie, soprattutto di coloro che hanno un lavoro, constatiamo che molti vivono ancora nella povertà radicale e crudele... niente luce o acqua potabile; ciabatte quando va bene... se no a piedi scalzi.
Andare nei villaggi alla domenica non vuole essere "una forma sgradevole di turismo", ma una lezione di vita in cui i volontari prendono coscienza prima di tutto di quanto siamo fortunati, e poi inquadrano meglio i malati che si trovano ad assistere durante la settimana lavorativa.
Anche per me è sempre un dono quando incontro un povero: la sua stessa vita mi mette in crisi e mi interpella. Senza dire una parola, il povero mi fa una predica più convincente di quella di molti preti. Davanti ad una capanna di paglia o ad un bambino scalzo rimango senza parole e ridimensiono i miei problemi e le mie crisi. Come si fa a non essere toccati da situazioni del genere... noi che abbiamo tutto, anche qui in Africa.
Quando apro la doccia per togliermi di dosso la polvere rossa che, durante l'escursione al villaggio, mi è rimasta sulla pelle, penso a quelle persone che, per potersi lavare, devono andare al fiume e raccogliere una tanica d'acqua da portare a casa sulle spalle.
Quando accendo la luce o uso il telefonino, non posso non pensare al buio pesto di una capanna alla notte, anche se c'è una lampada a petrolio. Tornando dal villaggio, comodamente seduti sulla Toyota, come si fa a non guardare con occhi diversi tutti quegli esseri umani scalzi che si dirigono verso casa a piedi, facendo magari chilometri e chilometri.
E' proprio vero che i poveri sono i nostri maestri di vita, anche quando non sono andati a scuola e non sanno parlare. E' verissimo che la loro presenza è sempre un salutare pugno nello stomaco di cui abbiamo tutti bisogno.
Chiedo al Signore, per me e per i volontari, la fedeltà al povero e la capacità di lasciarci convertire dalla loro silenziosa presenza.



Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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