lunedì 3 agosto 2009

Quando il morale è basso


Ci sono giorni in cui l’Africa perde un po’ il suo fascino arcaico, e la malattia assume nel mio cuore un carattere offensivo e deprimente. Ci sono momenti in cui il cuore e’ pesante, nella calura del pomeriggio, nell’umidita’ della sala operatoria torrida, nella solitudine che a volte invade il cuore pur essendo circondato da centinaia di persone... e’ in quegli istanti che il mestiere che ho esercitato da molti anni e che tanto mi entusiasma, puo’ diventare opprimente.

Quando “la testa” non e’ veramente presente, e vaga schiacciata da tanti problemi che la perseguitano, il contatto con il dolore mi sfinisce: tutti quei corpicini roventi per la febbre, le pance gonfie dei malati di cancro e di quelli con la cirrosi epatica, le gambe consumate dalle piaghe tropicali o rese grottesche dall’elefantiasi, i visi scavati dall’AIDS, le pelli rese completamente “rognose” dalla sifilide, le donne che complicano al parto, i bambini gia’ vecchi a causa della malnutrizione che incartapecorisce la loro pelle e la rende rugosa come quella di un novantenne...tutto diventa duro da tollerare.

Eppure questa e’ la nostra vita! Ma a volte anche la voce di un malato che chiama diventa un suono che non vorrei piu’ sentire e da cui desidererei fuggire lontanissimo.

Quando mi sento appiattito dal cattivo umore, la sequenza infinita delle cose da fare diventa noiosa.

Ma devo veramente riscattarmi, perche’ e’ solo li’ che trovo il senso della mia vita, in quel concerto di gesti e vicende che si ripetono all’infinito: un vecchio reso demente dalla insufficienza renale e che devo legare al letto per evitare che scappi o urini sul giaciglio del vicino; un uomo a cui suturo la faccia sfigurata dal machete; un bimbo a cui estraggo un fagiolo che per gioco si era infilato nel naso o nell’orecchio; una giovane donna a cui dobbiamo amputare una gamba a causa di un piede diabetico, o un’altra a cui bisogna fare subito un raschiamento per evitare che muoia dissanguata dopo un aborto... tutti loro fanno parte di me e sono la risposta alla mia ricerca di senso.

Quando il morale e’ sotto i tacchi anche il contatto con l’umanita’ ferita diventa piu’ impegnativo: percepire nell’aria quel sentimento che si prova soltanto a contatto con chi soffre, inalare a pieni polmoni l’odore della loro pelle, del loro sudore, del loro sangue, del loro dolore, della loro speranza, del barlume che a volte si accende negli occhi di un terminale quando la febbre lo lascia per un po’; e poi quell’attimo eterno in cui spesso, come medico, mi ritrovo testimone della vita che si spegne nella pupilla di un agonizzante... sono momenti qualificanti della mia vita, ma anche sfide quotidiane in cui devo dimenticare me stesso ed i miei problemi personali, per fare spazio al dolore degli altri. Credo che la vita del medico missionario sia un continuo svuotamento di se’ per far posto agli altri: ascoltare dal mattino alla sera i problemi e le lamentazioni altrui, senza mai trovare uno che si ricordi che anche tu hai bisogno di essere ascoltato.

In effetti non e’ sempre facile essere all’altezza di questo compito e la tentazione dello scoraggiamento, della ribellione e della fuga sono sempre accovacciate alla porta del mio cuore, soprattutto quando il morale e’ a terra.

Ma so che questi valori sono cosi’ necessari alla mia vita interiore, che non posso rimanere a lungo a crogiolarmi nello sconforto... lo so benissimo, e per esperienza, che sono felice solo quando alla sera posso dire di essere stato completamente mangiato dai malati senza neppure aver avuto un minuto per rimuginare le mie difficolta’ personali, che pur ci sono, ma vengono addolcite dalla donazione, dall’altruismo e dalla promessa di Gesu’ che neppure un bicchiare d’acqua dato per amore sara’ dimenticato.

Ciao.



Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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