martedì 11 agosto 2009

Un errore diagnostico

Oggi la giornata e’ stata particolarmente dura. Abbiamo corso tutti. I pazienti esterni erano certamente piu’ di 400, e in sala operatoria i cesarei si rincorrevano uno dietro l’altro.

Quando capita cosi’, non si riesce neppure a staccare per il pranzo, perche’ si sente il dovere morale di non far aspettare ulteriormente persone che magari sono arrivate 6-7 ore prima, e farebbero poi fatica a trovare un matatu per ripartire.

Nel mezzo di un caos simile, la stanchezza e la fretta possono a volte giocare dei brutti scherzi, e portare ad errori di valutazione anche molto spiacevoli.

E’ successo anche a me oggi, visto che non ho una particolare grazia di stato, e dal momento che non e’ assolutamente vero quanto qualcuno mi continua a ripetere con evidente ironia: “tu che sai tutto o quasi”. Proprio perche’ non conosco tutto, e soprattutto a volte faccio fatica ad usare la mia scienza al momento giusto, alcune ore fa ho gravemente sbagliato una diagnosi.

Mi sono trovato davanti un giovane di 16 anni, ma dal peso corporeo di un dodicenne. Aveva un dolore fortissimo nella parte bassa e destra dell’addome. Il male era cosi’ acuto che camminava a stento e diceva che il dolore si irradiava alla gamba destra. Non poteva sopportare la stazione eretta, e per ridurre le sofferenze lancinanti, procedeva verso la mia barella con la schiena leggermente piegata in avanti.

Con grossa fatica l’ho aiutato a sdraiarsi. Gli faceva troppo male quando provava a stendersi supino. Anche con due cuscini sotto la testa, sollevava comunque l’arto inferiore destro in una posizione che i medici chiamano “a canna di fucile”. Purtroppo non ho potuto richiedere un emocromo, perche’ la macchina e’ fuori uso.

Gli ho messo una mano sul punto cosiddetto di Mc Burney, e ne ho ottenuto un urlo disperato. C’era una massa dura nella zona dell’appendice. Ho provato a fare un’eco ma non ho visto niente in quanto c’era solo aria. Pero’ il resto della pancia era bello. Non aveva nessun segno di peritonismo o di resistenza lignea. Ho pensato ad un ascesso appendicolare, ed ho programmato l’intervento: il bambino era andato di corpo (seppure con feci dure) la notte precedente, e l’occlusione non mi era sembrata una opzione da prendere in considerazione. Anche mettendo il fonendo su quella massa, non avevo sentito un eccesso di borbottamento intestinale.

Purtroppo l’operazione si’ e’ dovuta posticipare tre volte, a causa di tagli cesarei di emergenza che non potevano aspettare, pena la perdita del feto. Quando finalmente siamo riusciti a programmare l’ operazione, la massa nella parte bassa della pancia era piu’ che raddoppiata. Io ed Ogembo di siamo guardati, entrambi pensando che c’era qualcosa che non quadrava con la diagnosi... ma ormai il dado era tratto. Il bambino gia’ dormiva e non potevamo tornare indietro. Abbiamo aperto la cute, scegliendo un taglio verticale e mediano sotto l’ombelico, perche’ non sapevamo davvero che cosa ci saremmo trovati davanti... e poi siamo andati in panico quando, aperto il peritoneo, ci siamo abbiamo visto una specie di ruota gonfia, tesa e rossastra. Ci guardiamo: non era un ascesso ma un volvolo del colon ascendente. L’appendicite c’era, ed era anche lunga e retrocecale, ma ora bisognava cercare di modificare i nostri piani...

Io non avevo mai visto un volvolo dal vero, ed Ogembo diceva di aver aiutato una volta sola in sala per un caso simile a questo, ma sul crasso discendente.

Abbiamo cercato di ritrovare la calma. Fortunatamente la anestesia di Jesse ci dava un buon rilassamento delle anse. Abbiamo quindi provato di ragionare e di vedere in quale direzione l’intestino si fosse attorcigliato, e dove fossero le briglie che lo avevano imprigionato in quella matassa anormale.

Come sempre, la Provvidenza ha guidato le nostre mani, e, con un colpo di bisturi qua ed una sforbiciata di la’, abbiamo visto il groviglio di visceri farsi sempre piu’ lasso, ed il loro colore acmbiare dal rosso scuro al roseo. Ad un un certo punto l’intestino, libero dalle aderenze, e’ ritornato autonomamente alla posizione e dimensione consuete, mentre il malato ha “fatto aria” sonoramente, anche se in anestesia generale.

Quello e’ stato per noi il momento piu’ bello, perche’ fino a pochi istanti prima, ancora non sapevamo se avremmo mai potuto completare quell’intervento che avevamo iniziato in maniera un po’ temeraria.

Le gambe continuavano atremare, ma adesso eravamo sereni. Abbiamo aggredito con cama l’appendice ed abbiamo concluso l’operazione senza ulteriori intoppi.

Ringraziamo Dio davvero, perche’, se quell’intestino fosse stato necrotico, ne’ io ne’ Ogembo saremmo stati in grado di eseguire una resezione... anche oggi ho toccato con mano che c’e’ sempre qualcuno che si prende cura di noi, ed e’ pronto a correre in nostro soccorso quando i pasticci in cui ci troviamo sono veramente troppo grossi. Ora sono le 23 e ancora dobbiamo andare a cena.



Fr Beppe




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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