Tutto comincia una sera al ristorante, tra le risa e i discorsi frenetici del fine settimana di noi amici trentenni impegnati soprattutto a scrollarci di dosso i giorni passati tra le carte dei nostri lavori di avvocati, architetti, giornalisti. Anna, che invece è dentista un po’ per eredità paterna un po’ per caso, se ne esce con la notizia che sta pensando di andare per tre settimane in Kenya, in un ospedale del Cottolengo di Torino, come volontaria. Parole su altre parole, nessuno ci fa troppo caso, anche perché conosciamo Anna e sappiamo che non può vivere per tutto quel tempo lontano dal suo guardaroba siderale e da un cocktail come si deve.
Io però torno a casa e continuo a pensare alla storia dell’ospedale di Chaaria, proprio sull’Equatore a pochi chilometri dal Monte Kenya, ai medici, ai dentisti e agli infermieri, soprattutto di Torino, che vanno e vengono per dare una mano a fratel Beppe, il chirurgo dell’ordine del Cottolengo che dirige questo posto dove si soccorre e si cura chi arriva dalle strade di terra rossa e fango delle campagne poverissime della Meru Region. Ci penso perché sono stufa di commuovermi e provare rabbia davanti ai telegiornali e alle mille trasmissioni di approfondimento che mi guardo a ripetizione per interpretare al meglio il mio ruolo di giornalista informata e consapevole. Voglio vedere com’è. E poi sono anni che dico e sento dire di come sarebbe bello e utile fare un’esperienza di volontariato internazionale.
Un mese più tardi Anna ed io siamo sulla strada che da Nairobi sale verso gli altipiani centrali, aggrappate ai nostri zaini che schizzano da tutte le parti per le buche e i salti che fratel Lorenzo, con una maestria acquisita in tredici anni di servizio sul luogo, affronta senza timore e senza pietà. Drogate nostro malgrado di reality show televisivi, educate all’ironia dai mille improbabili viaggi collezionati nel tempo, iniziamo senza nemmeno concordarlo un gioco in cui le otto ore di viaggio sono la prova del giorno e il trauma cranico che mi sono appena provocata decollando verso il soffitto del fuoristrada solo un altro motivo per farsi due risate. D’altronde abbiamo riso tanto anche il giorno prima, quando causa un errore di comunicazione siamo rimaste dalle dieci di sera alle tre e mezza di mattina appollaiate sui nostri inseparabili cento chili di bagaglio (attrezzature, medicine) all’aeroporto Jomo Keniatta, piacevolmente sorprese nel constatare che nessuno in fondo voleva davvero rapinarci. La prova è dura, e riserva ancora qualche sorpresa (venti chilometri di sterrato zuppo e intervallato da voragini di cui non si intuisce il limite dividono Chaaria dall’ultimo centro abitato degno di questo nome che attraversiamo, Meru) ma la superiamo e accolte dai fratelli della missione, Beppe, Maurizio, Giovanni, Ludovico, veniamo infine liberate dei valigioni, rifocillate e spedite a dormire. Percorro con Anna le poche decine di metri che separano la casa della missione dall’ospedale, preparandomi ad affrontare tutti i fantasmi, le paure, gli interrogativi cui io, piuttosto incline a svenire quando vedo la pubblicità di una siringa in Tv, sto per dare una risposta. È domenica mattina, l’ospedale si occupa soprattutto dei pazienti già ricoverati e delle urgenze e io vengo subito intercettata da fratel Lorenzo, che mi chiede se me la sento di seguirlo nella parte riservata ai “Buoni figli”. Come inizio è piuttosto duro e mi trovo davanti al mio terrore, alla mia meschinità, alla mia rabbia tutto d’un colpo. Loro sono tanti, ognuno con una storia e una condanna diversa, fisica e mentale insieme di solito, nel peggiore dei casi solo fisica e molto grave, tutti abbandonati dalle loro famiglie perché considerati un dispetto del malocchio. È l’ora del pranzo, gli inservienti preparano la stanza e portano i ragazzi uno a uno verso i tavoli, sulle loro sedie a rotelle. Sono urla e risa inconsapevoli e colpi sordi di pugni nei piatti e io caccio indietro la voglia di girare sui tacchi e scappare, anche se non posso troppo mentire con me stessa, le sensazioni che provo non sono di pietà umana, di amore o di gioia di rendermi utile. Faccio ciò che è necessario – imboccare uno dei ragazzi più “facili” mi dicono – e lo faccio con dolcezza e con cura, ma non mi inganno, più che di dolcezza e cura si tratta di circospezione e imbarazzo. Da fuori sono fredda e molto composta, ma a ogni cucchiaio di minestra mi trovo davanti alla mia angoscia, alla mia inadeguatezza e anche a una lieve impressione di schifo che non mi abbandona. È difficile ammetterlo, ma non c’è niente da fare, non riesco a farmi pervadere dall'accettazione della Divina Provvidenza che sembra giustificare ogni situazione e a trovare questo mio compito gratificante o almeno giusto. Più che altro mi osservo con interesse scientifico, antropologico, e assisto alla mia capacità di reagire comunque, di rimboccarmi le maniche, non dar retta al mio istinto e portare a termine il servizio.
Uscendo mi chiedo se sono io il mostro. Io che non provo pietà ma più che altro rabbia, non trasporto umano ma un fastidio difficile da scacciare. Nessun mostro mi dico, solo inesorabile appartenenza allo stesso genere che quei ragazzi li ha abbandonati, che li guarda da lontano, qui in Africa ma anche nella civile Europa, che non perde occasione per abbattere barriere architettoniche e pronunciare frasi politicamente corrette ma non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione di disagio che prova quando è messa di fronte a questo genere di realtà. Sono molto dura con me stessa, molto spietata e non posso dimenticare che ci sono generi di persone diverse, che con amore assistono disabili, che avendone uno in famiglia lo amano e curano con infinita dolcezza. Ma io, e forse è una facile giustificazione, una difesa di persona sana e arrogante, non ci riesco e tutto ciò che provo è rabbia, rifiuto di chi mi dice che è un miracolo di Dio che questi ragazzi possano vivere qui, assistiti e curati. O forse c’è una via di mezzo, e tutti abbiamo gli stessi umani pensieri, ai quali reagiamo in modo diverso. Intanto io sono qui, a faccio quello che devo fare, venendo a patti con la mia vigliaccheria.
Terra rosso intenso e natura strabordante, quasi eccessiva nella sua esuberanza di verde acceso e foglie giganti. È da qui che vengono i pazienti dell’ospedale di Chaaria, da qui e da trenta, quaranta chilometri di distanza a piedi. Camminiamo nel pomeriggio in questo scenario corroborante di natura sana, di terra fertile, di sole benevolo e di gente povera, malata, nullatenente. Facciamo chilometri anche noi, incontrando qua e là minuscole case di fango inghiottite dalla vegetazione, dove non c’è acqua, né elettricità né commercio e dove tutto è lontano, anche il fiume, dove tra una persona e un qualunque servizio c’è solo l’ostacolo spesso insormontabile della fatica fisica. Non si muore di fame, ognuno ha il suo piccolo campo, la sua pianta di banane. Le persone qui possono morire perché non bollono l’acqua. Non lo fanno perché non hanno la legna. Per raccoglierla bisogna fare chilometri, e distrutte dalla malaria, o solo da una ferita alla gamba mai curata, qualche volta non ce la fanno a camminare. E se ce la fanno, quella poca che raccolgono serve per cucinare il miglio o i fagioli. Oppure si muore perché spesso l’unico posto vicino dove ricevere cure è un piccolo dispensario, dove le mamme vedono somministrare ai loro bambini pieni di tosse e affanno respiratorio sciroppi e pasticche di cui non sanno. Tornano a casa, aspettano ancora qualche giorno che la medicina faccia effetto e quando il bambino non respira quasi più, lo portano in ospedale, da fratel Beppe.
«Spesso ai dispensari danno succo di frutta e acqua racconta lui con un sorriso rassegnato spacciandolo
per sciroppo, oppure dosi decimate di farmaci. Le madri aspettano, perché hanno visto il camice bianco dell’addetto al dispensario e sono sicure che il bambino guarisca. Poi dopo giorni vengono qui, con il bambino in coma da malaria, che non respira quasi più e noi facciamo quello che è possibile».
Fratel Beppe è l’unico medico qui all’ospedale di Chaaria. È arrivato da Torino nel 1998, dopo due anni in Bosnia durante la guerra e la specializzazione in malattie tropicali a Londra, quando qui c’era solo la parte dedicata ai Buoni Figli e una farmacia aperta al pubblico. In sei anni ha portato la struttura a regime e oggi è in grado di dare assistenza a 75mila pazienti l’anno, con cure di pronto soccorso, analisi di laboratorio, visite ecografiche, operazioni di chirurgia ginecologica, oncologica, ortopedica, d’urgenza, assistenza dentistica, cura e degenza per malati di malaria, di HIV e malattie infettive in generale. La sua vita guardata dall’esterno sembra un inferno senza fine, ma lui non se ne accorge. Questa sera è domenica e lui va a dormire – come ogni notte con un occhio solo perché in ogni momento può essere svegliato per un’urgenza – sapendo che la mattina dopo ci sarà da cucire più del solito, in uno stillicidio di feriti da armi da taglio, risultato delle risse tra ubriachi delle notti di “festa” del fine settimana.
Alle sette e mezza della mattina io sono dai Buoni Figli per la colazione. Ci so fare già un po’ di più, ma non mi sento né migliore né utile né in pace con me stessa, tutt’altro. Dopo la colazione, come ieri, lavo i piatti e mi accorgo di essere guardata male. Ci metto poco a capire che i piatti si lavano a turno, e che sono il compito più ambito, perché gli altri sono portare i ragazzi al bagno, lavarli, rifare le loro stanze. Io sono nuova e non so nulla, oppure faccio finta di non accorgermene e lavo i piatti lo stesso, senza chiedere spiegazioni quando assisto a una discussione accesa in dialetto kimeru tra due delle inservienti, una di loro probabilmente salterà il suo turno di lavare i piatti per colpa mia. Mi ero preparata a molte cose prima di venire qui, a soffrire, a non farcela, a provare orrore. Non mi ero preparata a scoprire i miei lati peggiori o almeno troppo umani, a trovarmi di fronte alle piccolezze dell’animo, agli escamotage di sopravvivenza, guardati fino ad allora con severità e invece tutti lì in fila dentro di me. Intanto ho finito e la ragazza kimeru che sta pulendo i tavoli mi dice in inglese di scopare per terra e poi lavare. Eseguo ma alla terza volta che passa sul pavimento appena lavato sporcandolo di nuovo desisto, anche perché sono le nove e devo andare in ospedale. Lei mi guarda un po’ divertita e mi dice che c’è ancora da lavare dentro gli armadietti sotto i lavandini (ragnatele decennali mi dicono che è cosa riservata a me sola, una piccola vendetta). Lo faccio.
Poi di nuovo lei mi guarda e mi dice che il pavimento non è lavato bene, osservando con poca approvazione tutte quelle orme inequivocabilmente sue. Io sorrido sinceramente, un po’ rincuorata dal male comune di essere tutti molto umani e lo faccio. Quando lei ripassa di nuovo sul bagnato, sfodero il mio più umano sorriso, le piazzo lo straccio in mano e me ne vado.
Trovo Nadia, infermiera di Roma arrivata con noi da Nairobi, alle prese con una fila interminabile di persone in attesa di essere medicate. Fratel Beppe mi ha chiesto di darle una mano se me la fossi sentita e io, un bel respiro e una buona scorta della mia ironia, infilo guanti e mascherina e mi metto a disposizione.
L’ironia mi serve per sdrammatizzare con Nadia una situazione che credo di non essere pronta ad affrontare e lei gentile sta al gioco, senza nulla togliere alla cura con cui svolge le bende, e indicandomi di volta in volta ciò di cui ha bisogno, rifà le medicazioni ai pazienti. Io non devo aspettare più di cinque minuti per capire che siamo preparati di natura a far fronte a molte situazioni che di norma riteniamo inaccettabili, e al secondo paziente, una bambina di circa un anno con metà della testa ustionata, divento un pezzo di ghiaccio decisamente efficiente, insensibile sia al pianto della piccola che allo sguardo assente della madre. Nei ritagli di tempo tra un'ondata di pazienti e l'altra cerco di seguire le tappe della giornata di fratel Beppe, impresa non facile perché lui, mosso senza alcun dubbio da una "forza superiore" a me sconosciuta, passa da un'ecografia, a un parto cesareo, a un giro di visite nelle camerate alla constatazione di un decesso nello spazio di un paio d'ore.
Insieme a lui fratel Maurizio uno dei due clinical officers dell'ospedale (figura intermedia tra infermiere e medico) una ventina di infermieri e altrettanti inservienti, tutti assunti tra la gente del villaggio di Chaaria, fanno funzionare questa clinica svizzera in mezzo al nulla, dove si può avere una cura dentistica o un'analisi di laboratorio per una cifra di 35 volte inferiore a quella di un ospedale pubblico keniota. Nessuna delle persone che ogni giorno affollano le panche della sala d'attesa, che in alcuni casi si spostano per centinaia di chilometri, dalle regioni del nord, dal lago Turkana, dall'Etiopia per venire qui, potrebbe permettersi un'ecografia a 3500 scellini (l’equivalente di uno stipendio mensile medio, circa 40 euro) e fratel Beppe, sostenuto dalla casa madre del Cottolengo di Torino, fa di tutto per mantenere il costo di questo esame a 100 scellini: "E' un prezzo quasi simbolico per noi, ma per loro è già pesante così. Non attuiamo una politica di assistenza gratuita perché sarebbe impossibile da gestire, oltre che poco gradita dalle istituzioni locali. Però in questo modo, nel giro di sei anni, le persone della zona si sono abituate ad andare in ospedale a farsi vedere, curare, ad avere un'alternativa ai dispensari improvvisati, o al parto in casa, su un pavimento di terra lontano da tutto".
Già, il parto. All'inizio non ci faccio caso, presa come sono dalla costruzione di difese mentali nei confronti di ciò che mi circonda, ma al terzo giorno, durante il giro con fratel Beppe tra i reparti di degenza, ho come un risveglio di soprassalto. Ma qui ci sono solo mamme con bambini, appena nati, di qualche mese, al massimo un anno. Presa dalla questione faccio un giro veloce per tutto il comprensorio della struttura e le vedo. La camicia da notte blu dell'ospedale, i bambini vestiti di rosa in braccio o sulla schiena, le facce rilassate di chi si gode un posto pulito, fresco, all'ombra di una pianta dove chiacchierare con le altre mamme. A pochi passi c'è la camerata, e si sentono voci di donne e versi di bambini. Mi sposto ancora, tornando verso il cuore dell'ospedale e mi trovo davanti a una panca interminabile di altre camicie da notte blu e altri vestitini rosa, tutti in attesa della terapia quotidiana. Proseguo ed entro nella stanza dove ogni mattina, alle nove, le mamme lavano i bambini appena nati, e ne trovo quattro, tutte in fila, tutte intente negli stessi movimenti.
Poco dopo, nella stessa sala, una donna di 24 anni, dopo quattro aborti spontanei, partorirà il suo primo
figlio, un maschio di tre chili e cento, tra urla di dolore e di gioia, per essere diventata finalmente mamma, grazie a un cerchiaggio uterino, e anche perché non avere figli qui è una maledizione, un'esclusiva colpa della donna. Unico rimedio di solito, essere cacciata di casa e finire per strada.
Ripenso al giorno prima, quando fratel Beppe mi chiama e mi fa: "Vuoi assistere a un raschiamento?" Io dico "va bene", infilo camice e mascherina e, sempre nella stessa sala, di fianco allo studio dentistico, seguo le sue indicazioni su dove stare, su cosa succede. Lui mi spiega che questa donna è al suo terzo aborto spontaneo, che non ha figli e che difficilmente riuscirà mai a portare a termine una gravidanza. Io non riesco ad ascoltare tutte le sue parole perché ho già dei grossi problemi a dar retta ai miei occhi, che non sono proprio preparati a ciò che vedono. Appena ha finito, sento una sorta di formicolio alla testa, mi fiondo nello studio di Anna, piombo su uno sgabello e inizio a grondare, capendo che sto per svenire e continuando a ripetermi che non posso, che devo respirare, che l'ultima cosa di cui c'è bisogno qui è di una persona in più da assistere su un lettino. Anna mi guarda perplessa, parlandomi tra un paziente e l'altro, io mi riprendo e le dico che, non importa cosa faccia per guadagnare punti, la prova del giorno l'ho vinta io.
Oggi sono decisamente più lucida e mi ricordo di ciò che Beppe mi ha detto durante l'intervento il giorno prima, che nessun uomo contempla la possibilità di essere lui la causa dell'infertilità, che una donna senza figli è considerata una maledizione del destino, che peggio ancora, se ha abortito e ha visto o toccato il feto morto, sarà creduta sterile per sempre. Una conferma che ho la sera stessa, quando, come accade quasi tutte le sere, fratel Beppe va nella casetta di legno che ospita l'obitorio, prende in braccio l'involto di un bambino morto durante il giorno e si dirige verso il cimitero della missione. "E' un problema che cerchiamo di risolvere con il massimo dell'umanità”, mi spiega. “I genitori non vogliono nemmeno vedere il corpo del loro figlio morto, se ne vanno, lo lasciano qui. Non possiamo permetterci delle bare e quindi li avvolgiamo ermeticamente in teli cerati". Seguo al buio la traccia della pila con cui fratel Francisco, un giovane novizio, illumina il sentiero. Sono e mi sento inopportuna con le mie macchine fotografiche al collo e i flash che per forza dovrò usare. Beppe ha ancora quel volto rassegnato ma gentile e dice a Francisco, keniota e poco propenso a capire il senso di documentare un simile momento: "It's for the dollars, Francisco, to keep the prices low". The dollars, quelli delle donazioni, sono una parte importante del sostentamento dell'ospedale e farlo conoscere sui giornali è uno dei modi per ottenerne. Arriviamo al cimitero, fratel Beppe con il bambino in braccio, Francisco che apre l'imboccatura della fossa, chiusa da spesse assi. Io sono imbarazzata, sparo due flash e mi fermo quando Beppe sta per lasciare andare il bambino. Non c'è altro modo, è una fossa comune scavata da poco e il bambino cade giù per metri con un tonfo sordo sulla poca terra che protegge il corpo sepolto prima di lui. Un po' di terra per coprirlo, una preghiera breve, lo sguardo per un attimo stanco, e fratel Beppe mi fa cenno di tornare. Si preoccupa che tutto questo mi sembri disumano, io lo rassicuro dicendogli che è quanto di più umano e amorevole abbia visto in materia di morti. Gli chiedo come fa a non crollare, a non sentire il dolore, la fatica. Lui mi dice che è più dura quando un bambino lo ha avuto in ospedale per tanto tempo, mi racconta di una bambina che era rimasta lì per mesi e che aveva iniziato a chiamarlo papà. Poi era morta, e lui l'aveva sepolta così, con il dolore per la sua vita finita e perché chissà se qualcun altro ancora lo avrebbe chiamato papà.
Per riprendermi accompagno Beppe nel giro serale in camerata, e guardo a lungo le decine di mamme addormentate con i loro bambini a fianco. Ora mi è tutto molto più chiaro. La Piccola Casa della Divina Provvidenza di Chaaria non è un ospedale di sole mamme, è un ospedale africano, e in Africa tutte le donne o quasi hanno dei bambini, di solito sempre uno molto piccolo, perché la maggior parte, che lo voglia o no, rimane spesso incinta. Quindi se sono malate, in ospedale bisogna ricoverare anche il bambino, che non può stare a casa senza di lei (che spesso è sola, senza marito o genitori). Oppure è il bambino a stare male, e allora anche la madre viene ricoverata, oppure si tratta di donne che devono partorire o stanno per farlo. Il novanta per cento delle persone qui è composto da donne e la percentuale di queste che hanno per un motivo o l'altro un bambino al seguito, è poco più bassa. Gli uomini vanno poco in ospedale, per i motivi più vari, ma soprattutto per il totale fatalismo di chi non vuole sapere di essere malato e lo ignora finché può, e ogni angolo dell'ospedale di Chaaria è una sfida a tutte le eventuali teorie sulla procreazione responsabile.
Qui nelle campagne del Meru si nasce, di continuo, nonostante tutto, nonostante tre persone su dieci siano sieropositive, nonostante la malaria, nonostante le epidemie di colera, nonostante la mancanza di scuole. Si nasce perché la vita, come la natura intorno, è strabordante, prepotente, inarrestabile, e se ne frega degli standard di giudizio del primo mondo. E allora meglio nascere a Chaaria, a testa alta, tra le braccia delle mamme vestite di blu che sembrano un esercito di visi sereni, quasi spavaldi, forse fieri di avere qualcuno che si prende cura di loro, di avere un posto pulito dove andare, un po' frenetico, spesso caotico ma dove se capita qualcosa fratel Beppe ti tira fuori col cesareo, ti rianima, ti mette per un po' nell'incubatrice, ti dà un benvenuto frettoloso e sorridente e se ne va a ricucire la testa dell'ennesimo ragazzo aggredito da qualcuno nella notte a colpi di macete…


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