lunedì 11 ottobre 2010

Lunedì: usualmente un giorno da sballo

Anche oggi, come sempre la sala di attesa e’ piena. Sembra un formicaio. Non sai neppure da dove possano sbucare cosi’ tanti clienti.
Sembra che si riproducano per mitosi alla velocita’ di una cellula impazzita. Continui a visitare dalle 8 di mattina. Ti sembra di averne fatto passare veramente tanti. Poi, se metti il naso fuori a sbirciare nella “waiting bay”, le panchine sono ancora tutte piene.
Ti chiedi allora se sei rimasto solo a visitare, ma ti accorgi che ovunque e’ lo stesso pienone. Dal dentista i pazienti sono stati gia’ piu’ di 20, ed altri 15 rimangono in attesa.
Di fronte alla porta di Ogembo la panchina e’ stracolma.
In farmacia, dove dispensiamo le medicine, non ci si gira... e lo stesso dicasi per la clinica antenatale e per l’ambulatorio HIV/TBC.
I reparti scoppiano. Oggi non abbiamo piu’ letti per le donne. Anche i bimbi non sappiamo dove metterli. L’ultimo ricovero l’abbiamo sistemato nella stanza dei post-cesarei.
Mi sono alzato alle 2.45 di notte, ed ancora sto lottando per finire la coda che non si vuole accorciare. Meno male che oggi non ci sono stati cesarei ed abbiamo deciso di non fare operazioni programmate.
Eppure questo e’ il lunedi’ di Chaaria, anche se purtroppo, oggi come oggi, tutti gli altri giorni, sabato compreso, assomigliano pazzescamente ad un lunedi’.
A dare una piccola bordata di adrenalina ad una giornata che certo non ne era sprovvista, e’ arrivato un uomo coperto di polvere e di sangue.
Aveva una freccia piantata nell’addome in direzione dell’emitorace sinistro. Ci siamo agitati. Abbiamo corso. Ma prima di poter decidere come rimuovere quello strumento di morte, quella povera creatura e’ spirata davanti a noi.
Ho chiamato un parente per capire quel che era successo. Mi son trovato davanti un ragazzo poco piu’ che diciottenne.
“E’ stato mio nonno a tirare la freccia. Quresto e’ mio papa’. Io non so quello che e’ successo perche’ ero a lavorare”. Poi e’ scoppiato a piangere.
L’ho lasciato solo con il suo dolore. Non avrei saputo cosa dirgli. Ma nel mio cervello e’ balenato il pensiero: ‘che famiglia disgraziata. Un vecchio padre che uccide il proprio figlio e lascia orfano il suo nipote. Come faranno ancora a parlarsi. Potranno mai perdonarsi?’
Ma devo correre... non c’e’ tempo per le divagazioni, perche’ i malati sono ancora tanti e tutti si lamentano che sta per partire l’ultimo matatu.
Ti chiedi se ha senso tutto questo ‘affannarsi’, con il pericolo incombente di sbagliare... per la fretta o per la stanchezza.
Ma dentro di te lo senti che il senso c’e’... eccome se c’e’.
E’ bello essere a Chaaria solo perche’ ci sono tanti pazienti. Se non ce ne fossero, allora si’ che potremmo concludere che la nostra presenza qui non ha piu’ significato.
PS: DICE IL SAGGIO: “SE CURI UN PAZIENTE PUOI VINCERE O PERDERE... MA SE TI PRENDI CURA DI LUI PUOI SOLO VINCERE”.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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