Forse non molti dei lettori sanno come e’ iniziata l’avventura di carita’ di San Giuseppe Cottolengo.
Lui era prete gia’ da molti anni, ma era come se gli mancasse qualcosa. Una vena di insoddisfazione lo aveva portato sull’orlo di una profonda crisi interiore, che ormai lo attanagliava da tre anni.
Poi un giorno successe qualcosa che cambio’ radicalmente e per sempre il corso della sua vita. Una specie di “telefonata di Dio”, attraverso la quale il Cottolengo ha compreso quale sarebbe stata la strada da percorrere.
Era il 2 settembre 1827, ed una giovane donna incinta stava morendo in una stalla a pochi passi dalla parrocchia dove faceva servizio il Canonico Cottolengo.
Questa donna, di nome Maria Giovanna Gonnet era francese, e, con il marito Pietro Ferrario ed i figli, era in viaggio da Milano verso la Francia.
Giunta a Torino, venne colta dalle doglie del parto. Gia’ allora, la Capitale del Regno Sabaudo era ricca di ospedali, ma le regolamentazioni interne li rendevano altamente inefficienti.
Maria Gonnet fu portata dal marito all’ospedale per la maternita’, dalla quale pero’ venne respinta perche’ febbricitante e affetta “da malattia di petto” (cioe’ da probabile tubercolosi). Ai tempi non c’erano terapie antitubercolari, e la mortalita’ era altissima per questa malattia infettiva. Si puo’ quindi anche comprendere quanto le autorita’ di quell’ospedale fossero preoccupate per un possibile contagio.
Maria venne quindi portata all’Ospedale Maggiore, ma anche qui venne respinta perche’ incinta, ed in quel nosocomio non c’erano reparti di ostetricia.
Intanto le sue condizioni peggiorarono rapidamente: Maria Giovanna partori’ un bambino e subito dopo mori’ in quella stalla nel territorio della parrocchia del Corpus Domini, dove operava don Giuseppe Cottolengo.
Il Canonico fu chiamato per i sacramenti, ed assistette a quella morte assurda: diede l’assoluzione alla donna; battezzo’ il bambino prima che morisse, ma fu totalmente sconvolto dall’accaduto, dalla disperazione del marito e dei figli, dal rifiuto a loro opposto da tutte le strutture sanitarie della citta’.
Il Cottolengo si lascio’ interrogare dall’accaduto. Non scrollo’ le spalle e non volle girare pagina.
Perche’ Dio lo aveva voluto testimone di una scena cosi’ tremenda? Perche’ aveva voluto che quella donna morisse, insieme al pargoletto, proprio davanti a lui? Perche’ aveva dovuto sorbirsi le urla disperate del marito e dei bambini?
Pianse anche lui, e poi prego’ davanti al quadro della Madonna. E pare che sia proprio in quel momento di orazione che il Cottolengo, a 42 anni di eta’, abbia ricevuto la “grazia”, l’ispirazione che poi ha cambiato tutta la sua vita.
E a me piace sintetizzare questa ispirazione in una idea centrale (la “cosa in testa” di cui parlano alcuni biografi): spendere tutta la sua vita per far si’ che casi del genere non si ripetano piu’; aprire una “Piccola Casa” che sia ‘casa’ per tutti coloro che sono abbandonati, rifiutati, non voluti... per motivi economici o per qualunque altra ragione. Essere accoglienti sempre per tutti coloro che non hanno nessuno, in modo che anch’essi possano testimoniare l’amore di Dio Padre Provvidente. Nei limiti della natura umana, cercare di non mandare via nessuno.
Fin qui la storia del nostro Padre Fondatore...
Mi piace ora pensare che anche gli inizi del Cottolengo Mission Hospital, gli anni cioe’ in cui e’ avvenuta la trasformazione da dispensario a ospedale vero e proprio, siano stati costellati da “sms” che il Signore ci mandava attraverso le vicende di tutti i giorni. E credo che noi siamo stati capaci di ascoltare, di non “far finta di niente”... abbiamo dunque preso delle decisioni ed abbiamo operato delle scelte che oggi sono alla base di tutto quanto e’ avvenuto, naturalmente con la benedizione ed il sostegno dei Superiori, senza i quali nulla avrebbe potuto avvenire. Vi trascrivo alcuni esempi suggestivi di quanto intendo comunicarvi e sono sicuro che anche voi coglierete le analogie.
A Chaaria era un giorno piovoso dell’aprile 1998 quando ricevemmo una mamma che aveva appena partorito a casa e poi era caduta in coma profondo: io feci l’esame della malaria che risultò positivo ad alta densità. Era un caso di malaria cerebrale. La malata si chiamava Karimi; era sporca di fango e sanguinava a causa di una lacerazione post partum. Decidemmo di lavarla, e di riparare la lacerazione che sanguinava molto. Battezzammo il bambino e lo chiamammo Pasqualino, essendo il Venerdì Santo. Poi la paura mi ritornò, ed insieme a Fr Maurizio decidemmo di portare la paziente all’ospedale di Nkubu: noi non avevamo posti letto ed io mi sentivo totalente inadeguato.
Prendemmo la macchina, ma il Signore aveva un altro disegno: appena fuori Chaaria ci impantanammo nel fango, l’auto affondò in un rigagnolo laterale e non ci fu alcuna possibilità di proseguire. Chiedemmo l’aiuto della gente: vennero in molti con le “panghe”, i badili e le zappe; portarono pietre e spinsero la Toyota che faticosamente venne fuori dal fosso con la frizione che puzzava di bruciato. Ritornammo a Chaaria perche’ la strada era impraticabile, e decidemmo che bisognava provare a fare qualcosa. Mettemmo il chinino in vena, e con sorpresa di tutti, la mamma venne fuori dal coma in meno di 48 ore. L’avevamo messa su una branda in corridoio, dove precedentemente c’era una stufa a legna. La donna si riprese e tornò a casa con il suo Pasqualino… l’abbiamo vista dopo due anni,ed era in gran forma insieme al suo piccolino.
L’esperienza ci galvanizzò e pensammo che avremmo potuto anche ricoverare alcuni casi selezionati. La seconda paziente ricoverata si chiamava Monica: aveva un tumore del cuoio capelluto e, dopo la radioterapia, ora aveva un enorme cratere da medicare tutti i giorni. Monica rimase con noi per alcuni mesi finchè il Signore la chiamò a sé. Anche lei dormiva sull’unica branda che avevamo posto in corridoio.
La terza paziente era una giovane maestra di Chaaria: si chiamava Florence.
Venne da noi con chiari segni di AIDS: era magrissima; aveva diarrea continua e non poteva mangiare a causa del mughetto che le occupava tutto il cavo orale. Per molto tempo le offrimmo terapia ospedaliera diurna: andavamo a prenderla al mattino nella sua capanna di paglia e legno, dove la trovavamo tutta sporca di feci; la pulivamo e poi la portavamo in dispensario dove iniziavamo le flebo e le altre terapie endovenose. Alla sera la riportavamo a casa. Quando Florence fu totalmente incapace di camminare (non avevamo farmaci antiretrovirali) ci chiese di essere trasferita in un ospedale più grande, perché a lei sembrava di essere troppo grave per un piccolo dispensario come il nostro. La accontentammo a malincuore perché sapevamo benissimo che là non sarebbe migliorata. Fu Maurizio a portarla. Florence mori’ dopo pochi giorni, ricevendo piu’ o meno le stesse terapie che anche noi avremmo potuto offrirle a Chaaria. Da quel momento decidemmo che i pazienti con AIDS sarebbero stati ricovarati nel nostro piccolo dispensario.
Quanti volti mi passano davanti se penso ai malati di AIDS, che ricoveravamo quando in stato terminale, ed accompagnavamo fino al momento della morte.
Il nostro dramma era la totale assenza di farmaci antiretrovirali, per cui davvero non avevamo nessuna terapia al di fuori di quella di Madre Teresa di Calcutta: l’amore e la dedizione.
Fra tutti, con un tonfo al cuore, ricordo Stella, la bimba orfana di 8 anni, che mi adottò come papà. Non so ancora come mai sia avvenuto. La ricoverai per la prima volta nel 1999, quando ancora gli unici due letti erano in corridoio. Era un ricovero normale, dovuto ad alta densità di malaria e ad anemia grave. Dopo alcuni giorni cominciò ad accettare la flebo o l’incannulamento della vena solo da me. Poi cominciò a chiamarmi: “BABA”, che in kiswahili significa per l’appunto papà. La cosa mi colmò di tenerezza. Il nostro amore crebbe di giorno in giorno, e ci vedevamo spesso, anche quando Stella non era malata. Passava lunghi mesi con noi al Cottolengo, ed in tali periodi conobbe tanti volontari... tra cui anche Nadia. Ebbe la possibilità di vedere il parco del Samburu con i suoi animali (ricordo che pianse quando una scimmia le rubò il panino); la portammo all’aeroporto di Nairobi, e con stupore ammirò la grandezza degli aerei. Però non avevamo farmaci, e la malattia continuava, anche se l’apparenza era sempre quella di una bambina stupenda con i caratteri somatici della razza somala. Un giorno (era marzo 2004) venne portata d’urgenza nel nostro ospedale; io stavo facendo un cesareo che poi si complicò e durò più del previsto. Stella aveva bisogno di trasfusione. Il sangue c’era, ma lei rifiutava di farsi prendere la vena. Voleva BABA. Purtroppo io arrivai tardi, dopo il cesareo. Stella se n’era andata per sempre all’eta’ di circa 12 anni, e a me rimaneva la grande angoscia di non averla più vista, e di non averle risposto quando mi chiamava PAPA’.
Fr Beppe (fine prima parte)
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