sabato 5 febbraio 2011

Appunti di viaggio e spunti di riflessione

Marsabit, Mikinduri, Isiolo, Marimati, Tharaka, nomi dal suono magico, che ricordano i romanzi di Salgari, ma sono nomi di veri villaggi o città; i Turkana, i Samburo, componenti di altre tribù di pastori-guerrieri nomadi, abbigliati con costumi antichi, decine di collane di perline colorate, cavigliere e bracciali d’argento, acconciature rituali appena usciti dai fumetti di Corto Maltese.
Sono luoghi lontani, persone che talvolta parlano lingue sconosciute a Chaaria.
Cosa c’entra tutto questo con Chaaria? Da quei luoghi, persone ammalate, per l’effetto passaparola, efficacissimo tra le genti illetterate, intraprendono viaggi lunghissimi, scomodi, costosi per arrivare fino a Chaaria, trascurando di fermarsi agli Ospedali più vicini alle loro terre. Hanno saputo che a Chaaria non si rifiuta a nessuno la cura, che non si tira a campare, che ogni anno le prestazioni migliorano, che gentilezza e rispetto sono la norma e non l’eccezione; sanno che si valuta come cercare il bene del malato e non la soddisfazione del medico, che si cerca di non sprecare risorse, ma di utilizzarle dove servono. Forse non lo sanno in dettaglio, ma sono sicuri che per lo meno ci proveremo sinceramente.
Noi volontari siamo invece bestie strane, arriviamo confidando molto sulle nostre capacità, sulla voglia di fare bene, per dimostrare che possiamo cambiare le cose: una specie di ansia da prestazione. Siamo portati a vedere il nostro lavoro, la foglia dell’albero, dimenticando l’albero nella sua interezza. Anche un piccolo Ospedale come Chaaria è un’entità complessa in una situazione a noi estranea.
Volta dopo volta si cerca di capire, ma il tempo passato là sembra non bastare mai.
La settimana scorsa, nel tardo pomeriggio eravamo in Sala Operatoria per un intervento urgente ed importante: la luce si è spenta. Siamo rimasti al buio nel silenzio degli apparecchi ammutoliti per lunghi terribili momenti; poi il ruggito del generatore ci ha riportati “in vita”. Ma il generatore ha una potenza limitata, non regge tutte le utenze, ci sono perciò delle priorità: le luci di sala, le culle termiche dei neonati, il frigo dei vaccini e dei farmaci; il condizionatore della Sala Operatoria non è prioritario e dopo qualche minuto un Chirurgo “lavato” sepolto sotto cappello, mascherina, grembiule di gomma, camice completo, guanti in lattice è dovuto uscire per non cascare svenuto per il caldo. Poi la corrente è tornata, se ne è andata di nuovo. Per quattro volte questa agonia. Anche nei giorni seguenti lo sgradevole fatto si è ripetuto varie volte. Ho imparato che l’elettricità di rete ti può mancare spesso ed il generatore è al suo limite e così la mia foglia ha imparato a fare i conti con l’albero.
Complessità … rendersi conto che l’impianto elettrico non è una variante indipendente e che nuove apparecchiature devono essere compatibili e risparmiose; sapere che i matatu viaggiano fino ad una certa ora e che quindi gli out-patients devono essere visitati sollecitamente, capire che il problema di chi arriva da molto lontano deve essere risolto subito, non su appuntamento, che la gente talvolta è sporca e puzza perché l’acqua è scarsa e le strade polverose o melmose, che il dolore e la sofferenza per la perdita di un figlio si manifestano in modo differente dal nostro.
Introdurre un nuovo intervento chirurgico nella casistica dell’ospedale può diventare un elemento di scompenso; gli infermieri non sono abituati a questa nuova situazione, bisogna coinvolgerli, spiegare, mostrare.
Inoltre il turn-over infermieristico è elevato, nuove facce, nuove conoscenze: per fortuna il livello delle persone, ora presenti, è nettamente migliore che nel passato, ma alcune brave nurses sono sul punto di andarsene, per cercare migliori retribuzioni. Certo, l’ospedale potrebbe alzare i salari, ma salterebbero i conti, le tariffe non potrebbero essere probabilmente le più basse del Kenia: complessità …
Lista delle cose che ho imparato quest’anno:
1) Non è vero che in Africa i tumori sono meno frequenti che da noi: i carcinomi dell’apparato digerente alto stanno diventando un’emergenza a cui per ora è impossibile dare risposta. II sarcomi ed i tumori linfatici sono anch’essi presenti in grande numero. Purtroppo in Africa, spessissimo, il tumore è davvero “un male incurabile”.
2) Non è vero che ci siano pochi anziani: spesso non sanno nemmeno la loro età, ma sono rispettati e riconosciuti.
3) Non è vero che tutti i padri si disinteressano dei figli: ho visto un papà tenersi in braccio il suo neonato con lacrime agli occhi e nessuna vergogna nel versarle.
4) Non è vero che i pazienti sono irriconoscenti; ho ricevuto benedizioni in lingue sconosciute da austeri personaggi del nord, strette di mano e sorrisi autentici. Un ricoverato mi ha rincorso per mostrarmi la cicatrice di un intervento subito in passato da me. Eravamo orgogliosi in due.
Una notte mi sono alzato e dalla finestra ho guardato la croce del sud e le stelle; le ho contate tutte. Sono un milione seicentotrentaquattromila seicentosedici. E’ esattamente il numero di bambini morti lo scorso anno nel mondo per la malaria. Forse non sono molto bravo in matematica, forse il numero non è perfetto, ma non è distante dal vero: ed è una vergogna che il mondo “civile” si porta dietro.
Potrei andare ancora avanti , ma sarebbe troppo lungo
Solo un’ultima considerazione.
Nella messa, allegra e colorata di Chaaria, si chiede perdono a Dio perché si è peccato “in preghiere, parole ed opere”. Forse allora si può anche pregare con “pensieri, parole ed opere”, quando si cerca di migliorare alcune procedure, quando si dice ad un malato, con dolcezza e rispetto, che non possiamo aiutarlo, quando sentiamo il primo urlo di un neonato che abbiamo aiutato a nascere. Se è così, io credo che a Chaaria si preghi molto e che sia una preghiera di grande valore agli occhi di Dio.

Max Albano






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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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