venerdì 4 febbraio 2011

Intervista al Padre della Piccola Casa

In occasione della Sua visita a Chaaria il Padre della Piccola Casa, don Aldo Sarotto, ha risposto ad alcune domande per i Lettori del sito internet della Missione. Sono molto grato al Padre per la Sua disponibilità.

Pierantonio Visentin. Chaaria, 23 gennaio 2011

 


Padre, la Chiesa vede diminuire le vocazioni e i fedeli in Europa, mentre nel resto del mondo essi aumentano, con un bilancio di segno positivo. E’ così anche per la Piccola Casa?
Tutto sommato la tendenza è la stessa. In Africa e in India ci sono stati anni in cui le vocazioni sono state molto numerose. Il numero non può essere elevatissimo tutti gli anni, ma c’è da essere contenti. E in Italia, per quanto riguarda i laici che frequentano la Piccola Casa, registriamo sì una flessione, perchè il volontariato si è differenziato in molteplici proposte, ma la tenuta è alta.

 

Lei è molto affezionato a Chaaria. Perchè?
Sono affezionato a tutte le Case del Cottolengo, ma per le Case in terra di missione si accentua quella parte di affetto legata all’enormità del bisogno. In questo senso, Chaaria è un segno davvero forte della nostra presenza. E’ una presenza al servizio di regioni molto povere, come il vicino Tharaka, dove abbiamo anche le Missioni di Gatunga e Mukothima. Ma pure a Nairobi è in corso da anni, con successo, una sfida importante, quella di accogliere i bambini sieropositivi per AIDS e di accompagnarli alla sieronegatività. E Tuuru, che per anni è stata un fondamentale riferimento per la riabilitazione dei bambini poliomielitici, ha da tempo avviato una trasformazione a favore dei bisogni più diversificati dell’infanzia. Infine, l’ultima nata, la Casa in Tanzania.
 
Nella precedente visita del luglio 2010, a conclusione dell’Omelia Lei disse ai ricoverati che noi del Cottolengo dovevamo badare non solo alla loro salute fisica, ma anche al loro cuore. In che modo possiamo farlo?
Considero questo aspetto come l’anima del carisma del Cottolengo, che è stato un grande educatore. Avrebbe potuto fare il canonico, tranquillamente, invece si è prodigato ad assistere i poveri e ad insegnare come bisogna avvicinarsi ai più bisognosi, ai Buoni Figli, facendo un intervento globale, rivolto a tutta la persona. Se non si vede nel prossimo la persona e non ci si prende cura di lui andandogli incontro con il cuore, il servizio diventa un intervento qualsiasi.

Cosa abbiamo da imparare dal modo di vivere la fede degli africani?
La fede è un dono di Dio che va coltivato. Non bisogna avere sempre fretta e pensare solo al tempo degli uomini, bisogna essere capaci di attendere i tempi di Dio. Gli africani sanno attendere pazientemente per entrare genuinamente nella dinamica della volontà di Dio.

Alcuni volontari che hanno giocato a carte in Sua compagnia dicono che al gioco Lei non perdona (gli errori degli avversari). Ha giocato a carte con gli abitanti di Chaaria?
Quando ero giovane sacerdote il gioco mi ha aiutato ad entrare in relazione con gli ospiti della Piccola Casa. Ho imparato molto. In particolare è stato di grande importanza far giocare a scacchi i sordomuti. Il gioco mette a proprio agio, dà fiducia reciproca, avvicina le persone. Inoltre è utile giocare per imparare a perdere. Ora che ho poco tempo per giocare mi dicono che sono peggiorato e quando i Buoni Figli vincono sono molto contenti. Nei viaggi in Africa talvolta ho avuto un po’ più di tempo per il gioco e giocare a carte con gli abitanti di Chaaria mi ha aiutato a conoscerli meglio.

Padre, da anni molti volontari offrono il loro servizio in Africa nelle Missioni della Piccola Casa. Che consiglio può dare a chi desidera iniziare questa esperienza?
Il servizio non è un fatto neutro e non può ridursi ad una prestazione. Chi vuole offrire il proprio servizio deve avere l’animo aperto per essere pronto a dare, ma anche a ricevere. I poveri hanno un segreto: se entri nella loro persona la loro persona entra in te, e questa reciprocità sostiene la voglia di continuare a dare.

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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