giovedì 24 febbraio 2011

La morte ci devasta sempre

Ho tanto mal di testa e mi sento a pezzi. E' stata una giornata durissima culminata con la morte di una giovane donna.
Alla morte proprio non ci si abitua. Sentirsi in qualche modo in colpa per la morte di una persona, ci lascia un senso di vuoto e di smarrimento che non riesci a superare facilmente.
Stasera, mentre portavo via quel cadavere di 35 anni, ed ancora mi chiedevo che cosa fosse successo, se la morte fosse stata ineluttabile o se magari avessi dovuto comportarmi diversamente, sentivo dalla sala parto il vagito di un neonato appena uscito dal ventre materno... ma anche questa nuova vita non è riuscita a calmare il mio cuore.
Un Buon Samaritano ha tentato di dirmi che ho fatto tutto quello che era possibile (ma sarà poi vero?), che il mio scopo era quello di promuovere la vita e non la morte (ma chissà cosa ne penserà il marito domani quando verrà in ospedale e troverà il letto della moglie occupato da un'altra persona!).
Clinicamente credo di non aver fatto errori; eppure quel cuore si è fermato a 35 anni. E' stato un decesso repentino, avvenuto alla fine di una giornata tremenda per me: ma onestamente ero lucido. Ho riguardato sulla cartella i passi della mia presa di decisione clinica... e li rifarei tutti.
Un'altra persona mi ha detto che a volte dobbiamo arrenderci all'ineluttabile. "La vita appartiene a Dio... e si vede che Lui l'ha chiamata proprio in quel momento".
Ma i momenti di Dio a volte sono difficili da comprendere: per esempio quando trasporti un bambino a Meru per una lastra del torace che ti pare importante per migliorare la sua terapia, ed il bimbo muore in ambulanza... allora ti vengono gli scrupoli, e ti chiedi se non sarebbe stato meglio dare a quel malatino un antibiotico, e lasciarlo nel calduccio del suo lettino senza lo stress del viaggio.
Oppure quando, come domenica scorsa, ti trovi davanti ad un addome acuto e devi decidere se si tratta di un caso "medico" o "chirurgico": onestamente domenica pensavo che si trattasse di un "addome medico", ed ho deciso di prescrivere una terapia e di attendere. Ma lunedì la pancia del paziente era molto peggiorata. A quel momento mi sono convinto che il malato aveva un "addome chirurgico": siamo partiti per Meru, ma lo sventurato è deceduto sulla barella all'atto del ricovero nell'ospedale di riferimento.
Ed allora la testa parte per la tangente e si fustiga: " se lo avessi portato ieri, forse ora sarebbe vivo!"
Ma il fatto è che la decisione di ieri mi sembrava di averla presa in scienza e coscienza... "magari se fossi partito ieri, il malato sarebbe morto in sala ugualmente... o magari sarebbe sopravvissuto...
Non ho modo di saperlo"... ed è questa incertezza che mi logora!
Mi tormento, e so che questo è il tormento di tutti i medici, che dimenticano i successi terapeutici, e si disperano invece per i fallimenti. Già, perchè noi non lavoriamo con sacchi di patate!
Il fatto è che queste persone sono morte davvero. Magari doveva essere così, ed era nel piano di Dio. Ma esse si sono rivolte a me per la guarigione... ed io non ne sono stato capace.
Ho un peso sul cuore, e lo offro a Dio.
Risposte non ce ne sono. Anche sui libri si parla di percentuali di mortalità per varie malattie o procedure mediche o chirurgiche... ma vorrei sempre che queste percentuali riguardassero gli altri.

Fr Beppe


1 commento:

Dr. Ugo Montanari ha detto...

Credo che chiunque di noi medici di questo pianeta si trovi a condividere le sensazioni ed i pensieri di baba Beppe;
personalmente, leggendo questa ed altre sue considerazioni in merito, mi sento molto coinvolto.

E' vero: noi medici in proporzione soffriamo molto più per gli insuccessi rispetto a quanto possiamo gioire per i successi (che sappiamo comunque effimeri).
L'accidiosa routine di MMG mi ha allontanato (fortunatamente, direi) sempre più da questo aspetto pulsante , dolente, ma vivo della medicina, trasformandomi in un lardelloso imbrattacarte... e ora mi sembra eroico e sovrumano ciò che riesce a fare baba Beppe ...e ogni volta che mi arrivano queste mail soffro un po' con lui, anche se mi vergogno un po' della mia incapacità ed "inioranza" rispetto a lui, pensando con raccapriccio all'immenso numero di vere sciocchezze che farei al suo posto.
Nessuno può garantire che abbia fatto il massimo, ma sicuramente ci è andato molto vicino ed ha fatto, deciso ed agito molto meglio della stragrande maggioranza di noi.
Resta la sofferenza, propria di ogni medico, che vede sempre la possibilità di migliorare e migliorarsi e percepisce comunque il proprio limite ed i limite del proprio intervento---- credo che questa sofferenza ed i dubbi che ne conseguono siano un po' con il dramma di Prometeo che ha il fegato perennemente divorato da un rapace (aquila?) come punizione per aver rubato il fuoco agli dèi...il nostro dubbio interiore persistente è, in fondo, la punizione per aver osato sfidare la Morte.....

ugodoc


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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