venerdì 22 aprile 2011

Venerdì Santo

La giornata di oggi proprio non ci piace.
A noi piace la Pasqua, la resurrezione, la gioia  che nasce dal fatto che Cristo ha vinto la morte e sara’ con noi fino alla fine del tempo.
Eppure non c’e’ risurrezione senza la morte; non c’e’ Pasqua senza la croce.
Gia’! La croce, che nessuno ama e da cui tutti rifuggono. La croce che pero’ non se ne vuole andare e sempre ci rincorre.
Non ci piace soffrire. Vorremmo la vittoria della Pasqua, senza dover passare per quella “porta stretta” che e’ il Venerdi’ Santo... ma poi dobbiamo ammettere che non e’ possibile. Dobbiamo accettare la croce! Croce che a volte viene dagli altri, con le loro calunnie, le loro maldicenze, il poco amore nei nostri confronti, i loro giudizi senza pieta’, la loro scarsa o nulla gratitudine.
Croce che a volte nasce da quello che siamo noi: dalle nostre incoerenze, dai tradimenti ai doveri del nostro stato di vita, dalla nostra congenita incapacita’ di essere retti (vediamo il bene, ci affasciniamo ad esso, lo vogliamo compiere con tutte le nostre forze... ma poi impercettibilmente ci pieghiamo al male... e poi ne paghiamo le conseguenze con dei forti sensi di colpa).
Il Venerdi’ Santo e’ anche un giorno di solitudine e di vuoto: Cristo e’ stato tradito da quasi tutti (incluso Pietro che lo ha rinnegato tre volte), e sulla croce dubita di essere stato abbandonato anche dal Padre (“Mio Dio, mio Dio, perche’ mi hai abbandonato?”). Non ci piace neppure questo aspetto del Venerdi’ Santo... eppure la vita ci dimostra che anche in questo la passione di Gesu’ e’ un paradigma della nostra vita. Quanta gente ci ha traditi; quanti amici si sono dileguati nel nulla, magari quando avevamo piu’ bisogno di loro; quante volte abbiamo anche noi pensato nel nostro dolore: “Ma se Dio esiste davvero, come fa a permettere che ci succeda questo?”.
Quante volte anche noi abbiamo subito il dolore di corone di spine conficcate sulla nostra testa dalla cattiveria altrui; oppure, come Cristo, siamo stati messi al ludibrio e sputacchiati in faccia con maldicenze e cattiverie. Noi pero’ non siamo buoni come Gesu’ che rimaneva in silenzio “come agnello mansueto portato al macello”: noi cerchiamo la rivalsa e a volte la vendetta... pensiamo che, reagendo e colpendo chi ci ha feriti, staremo meglio; ma e’ un circolo vizioso di rivincite; la sofferenza in tal modo non si placa, ma invece si perpetua e si autorigenera.
Non ci piace il dolore fisico che il Venerdi’ Santo ci propone cosi’ trucemente sulla pelle del Salvatore, e, quando non stiamo bene o siamo malati, ci lamentiamo con Dio dicendo: “ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Guarda invece i delinquenti a cui va sempre tutto bene!”
Eppure Gesu’ ha sopportato le torture in silenzio. Noi invece ci lamentiamo continuamente della sofferenza; ma questo non aiuta ad esorcizzarla.
Non ci piace neppure che Gesu’ sia morto davvero e sia deposto nel sepolcro: lo vorremmo vittorioso e “superstar”, perche’ gli eroi perdenti non sono di nostro gradimento. Lui invece giace sconfitto. Questo umano sentimento verso Cristo esprime la nostra riluttanza ad essere messi da parte, a non contar piu’ nulla, ad essere ridotti al silenzio.
Ma se ci e’ passato Cristo, il nostro Maestro, e’ chiaro che pure noi dobbiamo seguire la stessa strada. Fa male, ma e’ inevitavile.
Non si arriva alla domenica di Pasqua senza passare dal Calvario.
Ecco, questo e’ l’insegnamento che il Venerdi’ Santo quest’anno mi ispira e che, con riluttanza, cerchero’ di seguire.

Fr Beppe

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il Venerdì santo e la Pasqua hanno questo di liberatorio, che il pensiero viene distolto dal destino personale e portato molto al di là, fino al senso ultimo della vita, della sofferenza, del corso degli eventi, e ci è dato di concepire una grande speranza.

(Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel, 25 aprile 1943)


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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