sabato 11 giugno 2011

Lavorare come un negro

Questa espressione che molti ancora usano in Italia senza neppure saperne il significato, affonda in realta’ la sua triste origine in quell’ignominioso capitolo della nostra storia di uomini bianchi, che si chiama TRATTA DEGLI SCHIAVI.
Anche la parola negro dovrebbe sparire dal nostro vocabolario, per tutta la valenza razzista che porta con se’.
Stasera, tra un intervento e l’altro, non ho la forza ne’ la volonta’ di parlare di tale argomento, per me tanto doloroso ed assolutamente imbarazzante soprattutto da quando vivo in Africa: basta comunque aver letto RADICI e conoscere la storia di Kunta Kinte per immaginare che cosa sia stato il lavoro tremendo e senza umane soddisfazioni di coloro che i padroni chiamavano con disprezzo negri.
Oggi ho ripensato a questo argomento semplicemente perche’ si tratta nuovamente di un sabato terribile in cui finiremo l’ultimo cesareo (ancora da fare) dopo le 23.30. Non abbiamo mangiato ne’ io ne’ Celina, ma alla tentazione di dire che a Chaaria si lavora come dei negri, mi viene da pensare che non e’ cosi’, perche’ quei poveri schiavi dovevano lavorare per forza nelle piantagioni di cotone... se no li fustigavano o addirittura li mutilavano. Noi invece lavoriamo per amore di Dio e dei poveri.
Il concetto del lavorare come negri porta con se’ tutto un substrato di dolore e di ineluttabilita’ disperata che invece per noi non esiste: siamo contenti di donarci, di sacrificarci e di dare proprio tutto, fino all’ultima goccia di energia; nessuno ce lo fa fare e nessuno ci impedirebbe di scappare da Chaaria.
Per cui penso che a Chaaria non si lavori ne’ come negri, ne’ come bianchi. Si lavora come servi che questa vita son contenti di farla per amore e solo per amore.

Fr Beppe

 

Nessun commento:


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


Guarda il video....