Mi muovo attraverso il bananeto e cio’ che mi colpisce, mentre cammino con passo veloce, sono gli odori che si susseguono nell’aria che respiro: dapprima sono passato vicino a un glicine che mi ha riempito le narici di profumo soave, e mi ha fatto tornare in mente il carino episodio biblico in cui Giona se la prende con Dio che ha mandato il verme a corrodere quella deliziosa pianticella sotto la cui ombra lui trovava ristoro.
Un po’ piu’ avanti vedo, sul ciglio del sentierino, una fila di jacarande in fiore: anche loro profumano, ma la cosa piu’ bella sono le loro chiome di color violetto, che spiccano prepotentemente tra il verdolino dei bananeti.
Uscito dal nostro appezzamento, saluto un gruppo di donne che stanno facendo una riunione all’ombra rinfrescante di un grande albero di mango, che con le sue foglie di color verdone scuro, non solo offre refrigerio ai passanti, ma anche una casa a migliaia di uccelli tessitori, sgargianti nelle loro piume gialle e nere, e tutti intenti nel chiassoso compito di preparare i loro nidi.
Arrivo finalmente sulla strada principale di Chaaria. Il rosso della terra si staglia sullo sfondo azzurrissimo di un cielo equatoriale terso. In Africa la terra e’ rossa ovunque: la gente pensa che sia cosi’ perche’ intrisa dal sangue di tutti quelli che nei secoli sono morti a causa della tratta degli schiavi, delle violenze coloniali, e delle moltissime guerre fratricide. Guardo la terra, e per un attimo ritorno con la mente al Rwanda, al Nord Uganda, al Congo, al Sudan ed alla Somalia: quanto sangue anche oggi si mescola a questi granelli finissimi, rendendoli ancora più rubicondi.
Il cielo invece, soprattutto se spingo lo sguardo fino all’orizzonte, e’ di un blu impossibile da vedere alle nostre latitudini. Le nuvole bianche che si rincorrono veloci sospinte dalle correnti di alta quota, non fanno che aumentare il contrasto: ricordo di aver visto qualcosa di simile solo quando stavo scalando il Monviso, insieme ad alcuni Fratelli molti anni fa.
Mi si avvicina velocemente un matatu: e’ un vecchissimo Peugeot, simile al Fiorino della Fiat. E’ stipato di gente, non solo all’interno ma anche sulla bagagliera. Procede velocissimo verso di me. Gli uomini sul tettuccio mi urlano dietro, e ripetono continuamente: “ Mzungu, mzungu... dove hai lasciato l’automobile?”. Ci rimango un po’ male pensando che, dopo molti anni di servizio e di sacrificio per questa gente di giorno e di notte, sette giorni alla settimana, ancora sono considerato semplicemente un bianco, che per definizione non sa camminare, e quindi si muove sempre e solo in auto, dal momento che tutti i bianchi sono molto ricchi.
Non voglio pero’ rattristarmi con questi pensieri. Il matatu sfreccia rapido a due centimetri dal mio braccio destro. Ora vengo investito da un nuvolone di polvere che mi impedisce sia di vedere che di respirare. Mi fermo un attimo per permettere al pulviscolo di depositarsi: e’ una nebbia rossa, così fitta che potrei finire sotto un’altra macchina senza neppure vederla.
Dopo alcuni minuti, quando l’orizzonte ritorna limpido, scorgo davanti a me una fila di persone in abiti da festa, che camminano rapidi in direzione opposta alla mia: oggi e’ domenica e si dirigono verso la Chiesa cattolica per la Messa. Soprattutto le donne vestono colori vivacissimi. Hanno abiti dagli accostamenti arditi. Rosso porpora associato al giallo canarino… verde scuro, blu ed arancione si rincorrono sulle gonne, sulle camicette e sui foulard. Molti sono gli uomini in “kitenge”, ed anch’essi amano tinte assai evidenti. Penso che anche questo esprima un carattere propriamente africano.
Infatti sembra che all’equatore i contrasti siano molto piu’ forti, in ogni aspetto della vita. Quando di notte non c’è la luna, si sperimenta davvero il buio assoluto, e, se ci si trova per strada, non si riesce proprio a camminare. Però poi all’alba si passa dalle tenebre alla forte luminosità solare in pochissimi minuti. Lo stesso avviene al tramonto, quando il sole si tuffa dietro l’orizzonte, e la notte ti avvolge completamente in meno di un quarto d’ora.
Anche l’ospedale vive ogni giorno di questi contrasti fortissimi, per esempio tra la vita e la morte: oggi ho ricevuto una mamma con una malaria in gravidanza. Era confusa ed agitata. Stava complicando con una forma cerebrale. Mi è parso che la cosa migliore fosse quella di curare prima la malaria e poi di pensare al parto, magari domani, se le condizioni del feto dovessero deteriorare. Ho iniziato il chinino in vena questa mattina, ma purtroppo sono stato chiamato in serata dall’infermiera che mi ha comunicato: “il battito cardiaco è scomparso e la donna contrae fortemente”.
Che crisi! Se magari decidevo per un cesareo in mattinata, potevo salvare quella creatura. Invece ho optato per la terapia medica. Un’ altra di quelle scelte che, pur non essendo sbagliate, costano la vita a qualcuno. Anche questo fa parte dei colori africani: il bello ed il brutto, il successo e l’insuccesso sono separati da una linea a volte invisibile.
Come è difficile essere l’unico a decidere per tutte le emergenze!! Che margine enorme di errore!
Poco dopo, la nostra “malarica cerebrale” partorisce nel letto, assistita da Miriam. Il bambino è un maschio e già presenta i primi segni di macerazione post mortem. Lo guardo a lungo e lo deposito sul fasciatoio, dove pochi minuti prima erano stati assistiti due pupi nati senza problemi. Anche qui il contrasto lo sento in modo tagliente! Quasi una lotta continua tra gli estremi della vita e della morte.
L’Africa è così. Non permette le mezze misure. Anche chi ci viene, magari come volontario o come turista, o si innamora e si becca il famoso “mal d’Africa”, oppure la odia con tutte le forze e la rifiuta.
Io, dopo piu’ di 10 anni, ancora sento la forza di questi opposti che si confrontano ogni giorno, ne vengo scalfito quotidianamente, e mi porto le cicatrici nel cuore, sia nel bene che nel male, sia nel brutto che nel bello.
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