mercoledì 6 luglio 2011

Terra rossa - Racconto del Dott. Andrea Di Stefano

Ringrazio di cuore il Dr. Andrea Di Stefano, medico volontario, per avermi inviato il seguente racconto scritto da lui e per avermi autorizzato a pubblicarlo sul blog. 
Si tratta di uno scritto emozionante che non potrà lasciare indifferente alcun lettore.
Nadia


Io una terra così rossa come quella di Chaaria non l’avevo vista mai. Oh certo, quella dei campi da tennis, chi è che non l’ha vista quella. Ma non è la stessa cosa, quella sembra colorata apposta, sembra finta con quelle strisce bianche sopra e quella brutta rete in mezzo. No, credetemi, niente a che vedere con la terra rossa d’Africa, quella è un’altra cosa, è un’altra terra, un’altra essenza, è ruvida, è penetrante, intensa, compatta, è una specie di malta, un pigmento, un impasto primordiale da cui pare generarsi ogni cosa, il verde brillante della foresta, il calore stopposo dell’aria ferrosa, l’acqua stessa che dal suo ventre emerge rossa come un magma denso.
Quando arrivi laggiù non te ne rendi conto, non subito, troppi stimoli distraggono i tuoi sensi, quel cielo azzurrissimo con le sue nuvole cotonose di sfondo, il suono assordante delle cicale, la tempesta di odori, lo capisci che è tutto diverso, che è un altro mondo, capisci che c’è qualcosa di pregnante in quella natura prepotente, qualcosa che sembra volerti inglobare, assorbire, fagocitare, ma non ti rendi conto di cosa sia in effetti. Forse è per questo che non pensi a fuggire mentre dovresti, mentre sei ancora in tempo. Basterebbe chiudere gli occhi, trattenere il respiro e tapparti le orecchie, basterebbe ritornare sui tuoi passi prima che sia troppo tardi, prima che i tuoi piedi, non importa quanto spesse siano le calzature che indossi, calpestino per la prima volta quella dannata terra rossa. 
Dopo è troppo tardi. Magari potrebbe non esserlo ancora, se solo ne avessi coscienza, se solo potessi prevedere quello che ti accadrà da quel momento in poi. Chissà, forse potresti ancora reagire, con la mente, col cuore, con la memoria, con la saggezza. Per lo meno potresti provarci anche se non è detto che riesca a salvarti. Però potresti scongiurare il contagio più grave o potresti addirittura uscirne immunizzato, desensibilizzato, come dopo un vaccino. 
Io però quello che sarebbe successo mica lo sapevo. Che colpa ne ho io? Ditemelo! Quella terra lì l’ho calpestata ignaro, ci ho posato sopra tutti e due i piedi, ci ho camminato su, l’ho toccata, l’ho respirata a pieni polmoni. Ma cosa volete da me? Era tutto così bello! Come potevo resistere? Proprio io che ho speso la vita tra smog e cemento, cos’altro avrei potuto fare se non ammirare a bocca aperta quelle meraviglie? Ma, ditemi, avete mai visto apparire dal nulla una cascata d’acqua? Così, quasi per sbaglio, alzate lo sguardo verso la cima di un costone ed ecco, improvviso, dalla boscaglia un fiume si getta suicida nelle fauci verdi del vallone di sotto. L’avete mai visto? Avete mai ascoltato la melodia delle sue spume compatte? Beh, io mai nulla di simile prima. Perciò,  dinanzi a tanta magnificenza come anestetizzato, non ho avvertito niente, non mi sono accorto del contagio che da sotto i piedi mi saliva su per le gambe, non ho percepito la morsa inestricabile che mi serrava il midollo né le tossine avvelenarmi il cervello. No, non ho sentito niente. Solo incanto e stupore. Figurarsi! Io in Africa ero andato per rendermi utile, per aiutare la gente, non tutti certo, sarebbe impossibile, quelli che si poteva. Sono un medico, un chirurgo, ho una discreta esperienza, pensavo potesse servire. Quando sono partito ero pieno di belle speranze. Sì, avevo un po’ paura, pensavo fosse normale, la paura dell’ignoto. Di cosa sarei stato capace? Sarei riuscito davvero a combinare qualcosa di buono? Di questo mi preoccupavo. Della trappola tesa per me, invece, non avevo la più pallida idea. Quando ho lasciato casa mia avevo in mente solo il momento in cui sarei tornato. 
Mi figuravo pieno d’orgoglio a salutare amici e parenti, mille storie da raccontare, mille ricordi, avventure, come immaginare un ritorno più bello! Questo mi ha aiutato a vincere la paura quando sono partito per l’Africa. E’ come se avessi chiuso gli occhi dinanzi al baratro, per non vedere l’altezza, per non sentire la vertigine. Tanto, ormai, dovevo saltare. 
Ed io l’ho fatto. Accidenti se l’ho fatto! Anima e corpo, mi sono lanciato senza paracadute su quel mondo di terra rossa. Rosse le case, rossi i mattoni, i muri, i terrapieni, le strade, i sentieri, la mota ed il fango. Tutto rosso. Persino il pavimento della sala operatoria. Niente mattonelle, un massetto levigato  di cemento color ruggine. In sala operatoria  c’entravo senza scarpe, calzini bianchi ai piedi e addosso la tuta verde. Gli zoccoli stavano su uno scaffale dietro la porta. Pochi passi ogni volta, tre o quattro, entra ed esci dopo ogni intervento, pochi passi ripetuti giorno per giorno, settimana dopo settimana, decine di interventi, un lavoro da pazzi, trenta gradi durante le operazioni, si sudava da non potersi dire, i camici zuppi che avresti potuto strizzarli e riempirci un barile. Sette chili ci ho lasciato, sette chili di peso che ora non sembro più io, sette chili e tre paia di calzini ormai irrimediabilmente arrossati dalla terra. 
Eppure ad un certo momento ero stanco, volevo fuggire, volevo mollare tutto e scappare il più lontano possibile. Troppo aggressivo quel sole, troppo violenta la calura. Troppa fatica. E quell’umanità pertinace che pareva sopravvivere contro tutto e tutti? Al di là e al di sopra dei suoi drammi, delle sue contraddizioni, della sua forza a tratti mostruosa? Troppo coinvolgente, fascinosa, misteriosa. Sì, l’ho pensato e non mi sento un vigliacco per questo, abbandonare l’impresa, i malati, i bisognosi, tutto in malora. Chi ero io in fondo? Uno qualunque. 
Non potevo salvare l’Africa da solo! Non chiedetemi perché sono rimasto. Allora non l’ho capito subito ma ora lo so. Il contagio, la malìa, erano ormai dentro di me, nessun sintomo, nessun malore, il cuore forte, la mente lucida, le mani rapide ma le radici, le mie radici ormai non esistevano più. E senza radici, si sa, non siamo più le stesse persone. Una mattina poi ho visto la savana. Una distesa infinita, con le sue spighe verdi, le acacie spinose, i baobab, il pietrisco rossiccio, i torrenti color granato. 
Ho contemplato l’incedere lento dell’acqua rossa di fango mentre trascina tronchi e sterpaglie verso chissà quali paludi. Ho visto il pelo fulvo delle giraffe, gli elefanti coperti di polvere amaranto, ho visto correre le gazzelle, volare i condor, ho percepito tutta la vita che non puoi indovinare se non l’hai mai veduta. Ho respirato l’alito della madre Gea, inebriato ne ho riso, ne ho pianto, soffrendo e godendo al tempo stesso. 
Poi finalmente ho capito. Ho capito che mi ero perduto. Quando ho lasciato casa mia pensavo che presto sarei ritornato da trionfatore, invece sono rimasto qui. La terra, questa maledetta terra rossa, mi ha stregato per sempre.

Andrea Di Stefano 


Pubblicato nel volume antologico da cui è tratto "In Vino Veritas", edito da Perronelab, Roma.





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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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